Linea d'ombra - anno VII - n. 39 - giugno 1989

Ma quante chiacchiere si facevano in televisione. La sua generazione di trapasso aveva dovuto registrare molte trasformazionie adattarseleaddosso. Aveva fatto in tempoa vivere nella socialità, quando la parola era il mezzo. L'unico. Si studiava già a scuola, la retorica, con le differenze apprese faticosamente traducendo Demostene e Cicerone. La parola era tutto. Nella bella stagione, nel suo vicolo. i vicini che abitavano i sottani monocamere tiravano fuori le sedie per combattere il caldo e parlavano, parlavano per ore, sotto la luna. D'inverno si parlava, in casa intorno al fuoco del braciere, fino a quando non sopraggiunse la radio. Ma anche con la radio si parlava, anzi era una voce in più. La parola era regina pure in politica. I più bravi oratori, quelli che si sapevano portare le folle, erano politici di successo. Erano graditi quelli che non leggevano il foglietto degli appunti. Graditissima l'improvvisazione, falsa o autentica. Sugli argomenti più vari si accanivano implacabili ragionatori pirandelliani, nei caffé, quando era tempo cattivo, o nelle strade. Le tematiche erano a piacere. Di che si parlava? Di tutto, il tempo doveva passare. Per lo più si parlava male degli assenti. Andavano bene anche questioni non verificabili'e leggendarie: ledonne di Valentino, la trasmigrazionedelle anime, l'affondamento del Titanic... Nei casi migliori si discuteva degli articoli della Fiera Letteraria, così retorici anch'essi o delle cronache più frizzanti riportate dall'Espresso formato elefante. Se arrivava la grazia di una battuta felice, tanto di guadagnato, era una serata buona. Si leggeva, per discutere meglio. Si studiava per il piacere di restituire, in parole, l'appreso, appena sene dava l'occasione. E siccome "in principio era il verbo", i "cacagli" balbuzienti erano considerati infelici quasi alla pari dei ciechi.Chi era un professionistadelle parole, in particolare l'avvocato, godeva dell'aura, tuttameridionale e sofista, dell'arte oratoria. A Potenza c'era il tribunale con la corte di Appello e di Assise. Al tempo dei grandi processi penali, le aule erano piene di genteandata a sentire, e la progressione oratoria (il climax) a volte tirava l'applauso come un "a solo", la tirata sulnaso di Cyrano o il più sommerso "essere o non essere", a seconda degli stili. Si parlava dei grandi oratori, Porzio o Marciano. Giovanni se li studiavasullarivista "Eloquenza", indotazione allaBiblioteca Provinciale. Ma 'andava ad ascoltare anche gli avvocati bravi. "Oggi parla Pignatari", si diceva, come se si parlasse dell'attore di un film. Suopadre, inprivato undiscreto raisonneur,diceva che oratori come il socialista avvocatoFerri, non ce n'erano, STORIE/FRANCOBANDIERA in tutto il mondo. Si citavano casi giudiziari celebri e arringhe rimaste famose. Andavanomolto i processi per i delitti d'onore. Se non erano a porte chiuse, c'era la folla delle prime al cinematografo. Veniva spesso citato l'aneddoto giudiziario di quel famoso avvocato che chiese in prestito al carabiniere di servizio il fodero della sua sciabola d'ordinanza e muovendolo, incitava quel milite esterrefatto a reinserire l'arma. Quello non ci riusciva. Ergo, se ne poteva dedurre che anche in casi di stupro, se la donna non vuole, nulla accade. Cosa poteva fare la parola. Le parole messe bene insieme avevano la forza di un fiume in piena. Le parole risolvevano. E inseguivanopure le ore del sonno, con i discorsi degli ubriachi che si attardavano a parlare mentre si accompagnavano a casa ed erano discorsi lamentosi e apocalittici. Sulle volte sicure della "consecutio" chi aveva uso di lettere innalzava templi alla parola, adoperando al meglio anacoluti, sintagmi, paragoni, perifrasi, anàfore e metafore, e la litote, quando ci voleva. E anche il popolo aveva la parola come verbo, anzi ancora di più degli altri, perché molti non sapevano scrivere. "Chi tene lengua va in Sardegna" diceva un proverbio popolare. I codici linguistici popolari eranomodestimamultiuso. Le parole venivano adoperate conpiù significati, secondola costruzione della frase. Il corredo dei vocaboli era limitatoma si arricchiva con sorprendente facilità quando si andava fuori o a fare il soldato, perché le poche parole possedute lasciavanospazioali' apprendimentorapido dellealtre,anche di natura straniera. I contadini usavano un linguaggio stringato durante le ore normali, ma nei momenti particolari della festa e dell'emozione la lingua fioriva misteriosamente e si faceva musica e poesia. "Come si fatta rossa/ me pare na cerasa / te voglio da nu vaso/ addòmepiace ame", cantavano imietitoridurante le giornate interminabili d'estate. "Come si fatta ianca / mepare na ricotta/ te voglio da na botta/ addòmepiace ame"." Ali'acqua, all'acqua/ fontana nova/ chi non tene l'amante se lu trova" "Mio pastore/ mio pastore/ tieniminonmi far cadere/ per unpenna di pavone/m'hanno acciso senza ragione/ Pietro mi tenevae Nicola mi uccideva...". Le raccoglitrici di olive, cantavano canzoni variabili da paese a paese, su modelli comuni. "La mamma di Rosina era gelosa/ manco alla messa, la occhineramia/ mancoallamessa/ la vulìamannà..." A voltequestecantate popolari affondavano radici nei secoli, forse nella storia: "Non mi chiamate più / donna Sabella/ chiamateme Sabella sventurata..." E se nonerano canzoni, erano racconti interminabili fatti sulle aie o gare di poesia, a chi trovava la rima, complice un bicchiere di vino. Fino all'avvento della civiltà dell'immagine le parole erano state lo strumentodella comunicazione. Ora si erano straniatediventando spettacolonei talk-show televisivi. Perdendo la funzione comune, si erano caricate dei segni dell'eccezionalità, assumendo addiritturavalenza scenica. Si discorrevaper ore in televisione, perché si parlava sempre meno nelle strade, fra la gente. Non c'era piùnessuno, probabilmente, che si dedicasse ad esercizi retorici, come facevano loro da giovani. Ecco, se di una cosa Giovanni B. aveva nostalgia era di quelle notti leggere di allora, sospese su niente, in cui si parlava, parlava e le verità erano, alla fine, sempre più di una, almeno due o tre. 77

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