Linea d'ombra - anno VII - n. 39 - giugno 1989

più che altrove mi sembra che pagine molto belle (come l'inizio), si alternino a momenti di controllo approssimativo, e qualche volta a veri tonfi, dovuti non solo all'abuso di certi moduli formali (come il catalogo), ma anche a goffaggini di contenuto, come nel caso delle pagine, davvero brutte, sugli scorttri davanti alla Fiat. C'è, direi, una troppo spesso mancata saldatura tra l'effetto di realtà e la dilatazione fantastica, che si giustappongono senza fondersi, così che il romanzo procede per sobbalzi, e non trova mai il passo giusto. Bisogna anche riconoscere che Volponi sa, per così dire, fallire in grande stile, quasi cadendo sotto il peso dei grandi problemi sociali e politici che agit,a, e perciò spesso rilanciando l'idea di una letteratura che si misuri anche con questa dimensione, senza limitarsi alle piccole storie quotidiane o al piagnisteo del negativismo ontologico. Nella storia mancante, senza sviluppo narrativo, di Volponi, c'è, insomma, più verità che in quasi tutte le ben confezionate caramelline narrative di tanti cosiddetti giovani narratori; ma ciononostante Le mosche del capitale lascia largamente insoddisfatti, e forse segna un pun• to di non ritorno per la tradizione del romanzo sperimentale. A questo, per il futuro, converrà forse accostarsi a modelli più affabili, pur tenendo fede a quelle intenzioni di critica e di provocazione di cui non sapremmo, e soprattutto non vorremmo dover fare a meno. IL CONTESTO CONFRONTI CesareGarboli, o il demone dell'obliquità Mario Barenghi Cesare Garboli in una foto di Giovanni Giovannetti. L'insolito titolo che Cesare Garbo li ha scelto per il suo ultimo libro, Scrilli servili (Einaudi, pp. 223, L. 16.000) contiene, oltre a una buona dose di civetteria, una segreta verità, che non è semplice decifrare fino in fondo. "Serviti" significa naturalmente, in primo luogo, connessi a un fine pratico: "servizi" (spiega l'autore) "resi a una committenza". Si tratta infatti di una serie di pre- (e post-) fazioni: alla Vita di Molière di Ramon Femandez, ai Diari di Antonio Delfini, alle Opere di Natalia Ginzburg, ai racconti di Mérimée tradotti da Penna, a un volume di saggi deJla Moi-ante, alla ristampa della Breve ma veridica storia della pillura italiana di Roberto Longhi. Ma al di là del mero dato di fatto della prestazione professionale, di "servile" (se così ci vogliamo esprimere) in questi interventi, almeno a prima vista, non c'è proprio nulla. Non la scelta degli autori, tutti assai cari à Garboli, vicini alla sua sensibilità, legati a lui da rapporti di amicizia personale, o - come nel caso di Molière -resi più che familiari da un tipo di frequentazione, quella del traduttore, che; al pari di quella del critico fedele o del biografo, tende a ingenerare una sorta di viscerale complicità (come dire?), di affinità agonistica: di affezione gelosa: di ammirazione, di immedesimazione e di rivalità. E non il taglio delle analisi, che rispondono ai requisiti del saggismo più schietto, giocate come sono fra elusività di tono (e di passo) ed esattezza di osservazioni, con un gusto dell 'e§ercizio trasversale e nonchalant dell'acume critico che suggerisce piuttosto un senso di possesso che di subordinazione. · Garboli stesso non manca d'altronde di confessare l'intimo coinvolgimento èhe è all'origine dei brani qui raccolti, e che spiega il carattere fortemente soggettivo del suo approccio agli autori. "Ognuna di queste prefazioni", dice egli infatti nella premessa, "racconta una storia, o un evento, di seduzione". Seduzione, ecco la parola-chiave: perché il sedotto viene di necessità a trovars(in una condizione, in qualche maniera, "servile" -o meglio, perché fra soggetto e oggetto della seduzione prende sempre forma un ambiguo e reversibile rapporto di asservimento. Ma lo spunto è lasciato cadere, e lascia spazio a un'avventurosa distinzione fra scrittori-scrittori e scrittori-lettori che francamente non convince molto. In compenso, poco più avanti, Garbo li evoca a giustificazione del titolo la figura antonomastica della seduzione, l'archetipo del seduttore, don Giovanni: e, accanto a lui (neJla fattispecie, al momento della fatale stretta di mano con la statua), il servo-testimone, Sganarello o Leporello che sia. La servitù, appunto: che è "la sola cosa al mondo di cui siamo certi". La metafora è suggestiva; eppure sentiamo che c'è qualcosa d'altro. Il servo di don Giovanni, certo, assiste al compirsi del destino del padrone; ne partecipa, anche: e in maniera tanto più significativa; perché sopravvive, è con le sue parole riapre il corso della vita dopq la tragedia. Ma, la_seduzione? Il sospetto - tanto per rimanere in tema - è che Garbo li alluda a uno SganareJlo (o a un Leporello) fittizio, sotto le cui sembianze si cela questa volta, capovolgendo il mito, anziché don Giovanni, donna Elvira: e che l'uno e l'altra valgano come avatar di un Molière (o di un Mozart) che non hanno il coraggio di uscire allo scoperto. Ma a questo punto non ha molta importanza sapere chi stia servendo o seducendo, e chi stia per essere sedotto o asservito. Quello che conta è il risultato: cioè una scrittura genialmente e pervicacemente obliqua, che percorre imprevedibili itinerari ai confini fra analisi letteraria e invenzione creativa, fra "occasione" critica e autobiografia. Forse, l'orizzonte verso cui muove è una sorta di journal intime intellettuale, ovvero di saggistica, nell'originario senso montaigniano della parola. Resta tuttavia il dubbio che, salva la nota eleganza dello stile di Garboli e la finezza spesso straordinaria delle sue letture, alcune energie finiscano per andare sprecate. 25

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