IL CONTESTO CONFRONTI Fra moschee Volponi Gianni Turchetta L'ultimo romanzo di Paolo Volponi, Le . nwsche del capitale (Einaudi, pp. 279, L. 28.000), ha in comune con i precedenti oltre al titolo in "-aie" (Menwriale, Corporale,Lamacchina nwndiale, Il sipario ducale), una sorta di costitutiva inospitalità nei confronti del lettore. Questi infatti, proiettato in un universo calcolatamente magmatico, spesso attraente ma non di rado urtante per la ricerca continua, e continuamente esibita, di stridori e contrasti, difficilmente si trova a proprio agio, non gli viene mai consentito di abbandonarsi al piacere della storia e del testo. · Fedele a una vocazione artistica e ideologica ben identificata, in effetti Volponi muove da una poetica della disarmonia prestabilita, cui si sommano in questo libro una dose massiccia di lessico economico-sociologico (che. corregge in direzione tecnicistica la consueta mescolanza dei toni) e l'insistenza su una condizione tutta negativa, dominata dal crollo delle utopie e dei desideri di trasformazione: "Le speranze di qualche anno fa sono cadute nel buco del cesso come un pettinino o come un coperclùetto del dentifricio". In una "città industriale" sempre "più brutta e più cupa", e anzi "così brutta e sfatta che non è raccontabile", in cui persino la dolcezza del sonno ("Dormono tutti o quasi, e anche coloro che sono svegli giacciono smemorati") viene rappresentata ricorrendo a immagini classiche solo per accentuare il glùgno grottesco della constatazione di una nevrosi generalizzata ("Quasi tutti dormono sotto l'effetto del Valium, del Tavor, e del Roipnol"), solo il capitale vive, onnipresente e autorigenerantesi, in costante incremento,. "spinto dalla vita di tutto e di tutti", vampiro e signore senza avversari. . Anche il tema, costante in Volponi, del rapporto tra mondo contadino e mondo urbano-industriale viene cancellato qui dall'ipotesi (tutta da verificare) che già nel 1975, anno in cui si svolge il libro, si viva in una società post-industriale, dominata dalla computerizzazione e dal capitale finanziario. Lo scrittore però si fa prendere la mano, e pare quasi rimpiangere la cara, vecclùaalienazione industriale, con effetti di grottesco non so fino a che punto volontari: "durante gli anni cinquanta fino anche al '73-'74, l'officina era la cosa più seria e più viva, un operaio ci si ritrovava, capiva che era l'officina e capiva di essere un operaio". Volponi ha però ragione quando sottolinea come, contro le previsioni del marxismo classico sulla proletarizzazione della piccola borghesia, si sia giunti a una inquietante piccolo-borghesizzazione del proletariato, che ha contribuito in misura decisiva ad attenuare la conflittualità~ sociale, se non a cancellare ogni-forma di contestazione anti-capitalistica. In questo quadro sconfortante l'unico fram24 Paolo Volponi in una foto di Giovanni Giovannetti. r mento di speranza si ricollega nel libro, ma per poco, al protagonista Bruto Saraccini, dirigente di una grande industria simile all'Olivetti (dove Volponi è stato funzionario per molti anni), stimato al punto da ricevere la proposta di diventare amministratore delegato, e però anche portatore di un ideale umanistico di moralità e cultura, nel sogno di una fusione tra sviluppo industriale e"felicità del genere umano". Che il tentativo sia, più ancora che destinato al fallimento, privo di fondamento senz'altro, lo suggeriscono non solo la dubbia natura delle intenzioni di Saraccini, legate a complessi psico-sociali e dunque di discutibile purezza ("ha il solo merito di combattere la propria fatuità per una scarsa sicurezza di sé, a causa di un vecclùo, rurale complesso di inferiorità, un po' dovuto all'Edipo e un po' alla natura del luogo italiano appenninico centrale ..."), ma addirittura già il nome del protagonista, significativo conglomero di barbarie (un "Bruto", e per di più dei "Saraccini"), a ribadire l' onnipervasività dell'omologazione e del degrado. Inetto ad assumersi una responsabilità di potere, non si sa quanto per scrupolo morale e quanto per semplice vigliaccheria, Saraccini è all'inizio un vincente, ma solo perché non si è ancora confrontato con le vere contraddizioni, perché si è tenuto ralativamente ai margini, evitando di mettere a repentaglio il proprio ruolo aziendale nel tentativo di dare consistenza ai suoi sogni confusamente utopistici. Adifferenza inoltre di altri protagonisti volponiui (penso soprattutto al Girolamo Aspri di Corporale, • e alle sue vicissitudini sessuali), Saraccini quasi non ha vita privata, come se fosse integralmente assorbito dal mondo del lavoro. È probabilmente un dato allegorico, ma che contribuisce ad accentuare la fatica della lettura, facendo venire meno quella fisicità, e appunto "corporalità" di linguaggio, che era uno degli elementi di originalità della scrittura di Volponi. Qui la carnalità resiste quasi solo sul versante del disgusto, cui si connette un abbondante bestiario immondo (a cominciare dalle "mosche" del titolo), e poi, fra le altre figure, soprattutto quella del Presidente della grande industria, Nasàpeti, il cui nome, di trasparente coprolalia nonostante lo spostamento dell'accento (come ci viene un po' pedantemente spiegato), a sua volta anticipa la dolorosa smentita dei tratti che in lui sembravano annunciare una resistente moralità, o quanto meno la possibilità di far convivere il culto del denaro con un tanto di sensibilità umana. Il predominio assoluto deÙa negatività accentua anche quel senso della difficoltà di raccontare, che si trova già nelle opere precedenti di Volponi, e che si trova qui moltiplicato nella frammentarietà senza scampo dei numerosissimi racconti interni alla storia. Ne Le nwsche del capitale tutti raccontano, personaggi umani, animali, piante e perfino oggetti, e tutti sono egualmente arrivisti e intriganti: laborsa e la penna stilografica del Presidente; la poltrona di donna Fulgenzia, proprietaria dell'altra grande industria che cerca di accaparrarsi Saraccini; un pappagallo; i ficus di un ufficio di Bovino (inutile spiegare quale città reale si nasconda dietro quest'altro gioco di parole); il naso, gogolianamente, del Presidente; un dipinto di Lichtenstein; per non parlare del lungo dialogo, insieme leopardiano ed espressionistico, fra la luna e il computer. In questo modo Volponi cambia costantemente prospettiva, ma, nel profondo, finisce per fare della struttura poli-prospettica un monologo, anzi uno sfogo, dotato di una sua confusa grandezza e però carico di troppi squilibri. Nella congerie di personaggi, indifferente per principio a ogni logica propriamente narrativa, d'intreccio, ciò che conta è il processo di omologazione che identifica uomini e animali, esseri animati e oggetti inanimati, e ancora naturale e artificiale. I personaggi sono insomma moltissimi, ma di fatto "Non ci sono più personaggi perché nessuno agisce come tale, nessuno ha un proprio copione. L'unico personaggio, è banale dirlo, è il potere". L'aggettivo, come si vede, ce lo mette Volponi stesso: e in effetti è proprio banale dire che non c'è altro che il potere, a risucchiare l'universo mondo in un negativismo monocolore, senza distinzioni, che alla fine sa di maniera più che di disincantato realismo. In questa insidia Volponi cade spesso, gonfi andò a dismisura la consueta vena cosmico-apocalittica; si veda, per esempio, la lunga tirata sull'automazione, giocata sull'esasperante ripetizione di parole derivate dalla radice "automa". Scrittore, come direbbe Stendhal, "grasso", certo Volponi si espone, per la natura stessa del suo stile di assimmetrica accumulazione, al rischio della discontinuità di risultati, ma qui
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