Linea d'ombra - anno VII - n. 38 - maggio 1989

IL CONTESTO CONFRONTI Rushdie è grande. Un romanzo letto senza pensare a Khomeini Paolo Bertinetti Salman Rushdie è un grande scrittore, un narratore formidabile, uno straordinario inventore cli storie in cui, come si diceva nella ormai lontana recensione su "Linead' ombra" dei suoi due primi romanzi, si mescolano il dono ereditato dagli story tellers indiani, capaci di raccontare storie che durano intere giornate, piene di digressioni e riprese, percorse da una vena fantastica che ingigantisce il reale pur restando ancorata a esso, insieme con una padronanza del mezzo letterario di tipo sterniano, che gli consente di muoversi ali 'interno della forma romanzesca rivelandone gli artifici, i trucchi, le trovate, avvertendo il lettore della naturajictional del racconto e coinvolgendolo allo stesso tempo nella sua dimensione fantastica. Questo originalissimo piglio narrativo e la straordinaria. capaciià cli Rushdie di scardinare i criteri della verosimiglianza, ponendo sullo stesso piano realtà e sogno, narrazione realistica e invenzione mitica, che ce lo facevano definire come un funambolo della narrazione, ricompaiono con inalterata freschezza nel suo romanzo più recente,/ versi satanici (traduzione di Ettore Capriolo, Mondadori, pp. 576, L. 28.000). Il libro è diviso in nove capitoli, in cui si alternano il racconto delle vicende dei due protagonisti Gibreel e Saladin (capitoli 1, 3, 5, 7, 9) e la rivisitazione romanzesca di alcuni aspetti della cultura islanµca che si possono ricondurre aun unico nucleo tematicO",quello dei rapporti, dei legami e dei conflitti tra il mondo laico e la religiosità: la religione rivelata e istituzionalizzata (i capitoli 2 e 6 su Mahound) e il sentimento religioso come forza trascinante e totalizzante (i capitoli 4 e 8 su Ayesha). La storia del businessman e profeta Ma20 hound (il nome con cui nell'antico inglese medievale veniva indicato Maometto, che erroneamente si riteneva venisse adorato come un Dio - da cui il significato di idolo, falso Dio, mentre in scozzese significava diavolo) si svolge nella cittàdiJahilia, unacittàchenon c'è sulle carte geografiche, una città che in realtà non è un luogo, ma un'epoca, quella dell'ignoranza, come indica la radice araba della parola, quella del mondo prima dell'Islam. È questa la parte in cui lo spirito laico di Rushdie trova gli accenti più indignati e beffardi, in cui vengono trasfig~rati ironicamente non solo certi aspetti più o meno centrali della religione islamica, ma l'idea stessa della rivelazione divina: lo scriba persiano che trascrive i versetti recitati dal profeta Mahound, ovviamente dettati da Dio, ne cambia le parole e Mahound non se ne accorge. Ma allora cosa bisogna dedurne della "qualità della poesia divina'i Sul legame tra religione e potere, sul rispetto esteriore delle regole religiose e sulle loro trasgressioni segrete, sul bigottismo e sull'ipocrisia religiosa, Rushdie esercita con raffinata maestria le armi della ragione e dell'immaginazione letteraria. Ma sa anche quanto sia forte il sentimento religioso vissuto totalmente, quanto la ragione possa essere impotente nei suoi confronti. E nei capitoli su Ayesha, la fanciulla vestita di un manto di farfalle, ci racconta la storia di un intero paese che si mette in marcia verso la Mecca, deciso ad attraversare a piedi il Mare Arabico, perché certamente, come dice Ayesha, le acque si apriranno al loro passaggio. Mirza Saeed, il notabile del villaggio, segue in Mercedes con aria condizionata l'esodo allucinante dei fedeli (tra cui c'è la moglie, alla quale è stato permesso di guarire dal cancro che la consuma), cercando disperatamente di ricondurli alla ragione. Ne convincerà pochissimi, e anche quei pochi diranno di aver visto i pellegrini camminare sul fondo del mare. Mirza sa bene che sono tutti annegati, ma torna al villaggio e vi si lascia morire. E la sua morte coincide con la visione delle acque che si dividono. In questi capitoli non c'è quasi mai il Rushdie affabulatore e funambolo che abbiamo conosciuto nei precedenti romanzi: c'è il narratore puro delle Mille e una notte, con qualche pesantezza, ma forse soltanto per il lettore occidentale, nel secondo capitolo (è il solito discorso: quando la materia narrata, immersa in una cultura a noi estranea, non riesce a giungere a noi direttamente, scavalcando la differenza, ma ha bisogno della familiarità con quella cultura per essere pienamente apprezzata, la nostra reazione di lettori non può che essere tiepida; ammirata, magari, ma non partecipe). Dopo però il racconto scorre mirabilmente, tra le sabbie di Jahilia e i voli di farfalle intorno ad Ayesha, in una dimensione epico-fiabesca che informa sia la vicenda senza luogo e senza tempo di Mahound, sia il pellegrinaggio contemporaneo verso il Mare Arabico e la Mecca dei fedeli di Ayesha. È all'inizio (nelle pagine a cui accennava la stroncatura comparsa sul numero di dicembre dell'autorevolissima rivista letteraria iraniana "Kayhan Farangi" come più direttamente interpretabili inchiave anti-khomeinista) ma soprattutto nella conclusione di quest'ultima vicenda (attraverso l'accostamento tra il realismo degli accertamenti polizieschi e la visionarietà delle testimonianze degli ex-pellegrini che i "fatti" non possono intaccare, nella contrapposizione e coesistenza tra due realtà parallele) che ritroviamo il Rushdie a noi familiare, quello stesso che scatena il suo estro inventivo e affabulatorio negli altri cinque capitoli del romanzo. Forse non è casuale che proprio qui i due diversi stili narrativi si trovino affiancati; queste storie di un passato mitico e di un presente lontano sono il retroterra culturale e spirituale cli Gibreel e Saladin. Rushdie Ira la Lady di Ferro (foto Dossier) e il Profeta Dittatore.

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