Linea d'ombra - anno VII - n. 37 - aprile 1989

DEBENEDEffl, L'ULTIMO MAGO DELLA CRITICA Alfonso Berardinelli Ricerca, conversazione, insegnamento. Mi accorgo tardi, purtroppo, che il titolo che scelsi mesi fa per questa mia breve relazione su Debenedetti, è un titolo troppo ambizioso e promettente, troppo generico. Non potendo addentrarmi in una analisi dei diversi volumi di saggistica che Debenedetti ci ha lasciato, cercherò almeno di chiarire il significato del titolo che scelsi un po' incautamente, o di spiegare in breve le ragioni, le ipotesi, e lo spunto polemico, che stavano dietro quella scelta. E in estrema sintesi potrei dire subito: qui all'Università di Pavia, dal 1963 al 1966, per due anni con continuità, e poi più saltuariamente, seguii i corsi sul romanzo del Novecento tenuti da Debenedetti, assistendo, lezione dopo lezione, anno dopo anno, allo svolgersi della sua ricerca, una ricerca di cui le sue lezioni tracciavano il diligente e avvincente resoconto, in quel linguaggio discorsivo, ma anche ansiosamente divagante, che i suoi lettori conoscono. Lo stile delle sue lezioni era uno stile da conversazione: nessuna nozione veniva offerta come un accumulo stabilmente disponibile e memorizzabile. Monologando ad alta voce, ma con tutto il rispetto delle forme che sentiva (e aveva sempre sentito) di dover avere.per chi lo ascoltava, Debenedetti ci faceva assistere alla sua ricerca, alla sua riflessione in atto. Nel suo conversevole monologo di ricerca, nel bilancio retrospettivo della cultura letteraria di un secolo, bilancio che era anche una ricognizione, una diagnosi sul presente, sentivamo il conforto della sua pacatezza e lo stimolo della sua ansia. Forse il suo insegnamento trasmetteva anzitutto questo: il clima, l'atmosfera di quello stato mentale per cui una particolare ricerca si realizza nel medium di un particolare linguaggio. La moderazione di Dcbenedetti, le sue formule attenuanti, ironiche, i suoi garbati cerimoniali propiziatori, non soffocavano affatto l'audacia delle sue ipotesi critiche. Esprimevano anzi la cautela di chi sa di avventurarsi in terreni minati, in geografie ancora poco note. Quanto più la sua ricerca si muoveva in assenza di garanzie e di certezze aprioristiche, tanto più la forma del resoconto si dimostrava affabile e pacata. Cercava quei cruciali momenti della verità in cui un personaggio e uno scrittore tendono a manifestare apertamente o ad occultare con vistoso scrupolo una vocazione e un destino. Ma questa ansia e questo impegno di verità o di rivelazione prendevano forme apparentemente disimpegnate. In accenti moderati ci venivano descritte situazioni estreme. Di fronte agli eccessi e alle deformazioni spesso estremistiche dell'arte moderna, Debenedetti elaborava un linguaggio critico fatto di eleganze ironiche e di divaganti volute discorsive. Questa breve descrizione richiama solo elementi acquisiti. Si tratta di luoghi comuni su Debenedetti. Posso scegliere quasi a caso una formulazione fra le tante: "Quando ci si accinga a parlare di Giacomo Debenedetti, la tentazione di fare riferimento all'uomo, alla sua conversazione viva, è molto forte. In quella conversazione, paradossalmente, ci si dimenticava quasi dei suoi libri, del suo lavoro di scrittore; o per meglio dire, il confine tra la parola scritta e la parola parlata appariva labile, indefinibile. Alla maniera stessa che leggendo le sue pagine si poteva credere di sentire la sua voce: che ci concedesse spazio e tempo per replicare, per intervenire, secondo i principi della più cortese e avvincente arte maieutica. Ma questo vuol dire anche, e prima di tutto, che l'uomo privato riusciva a trasferirsi interamente- o al limite massimo -- nella sua scrittura; che tra la pagina e l'uomo non c'era diaframma né soluzione di continuità. E quando sulla pagina s'intuiva un misterc, una perplessità di fronte alle cose del mondo, un qualche stremato disagio, quell'incertezza così sollecitante aveva radici nei modi stessi del1 'uomo: sentire la vita (e la letteratura) come una perenne e sconcertante fluidità. Sentirne il movimento, e resistere alla tentazione di definirla" (Luigi Baldacci, Debenedetti e la critica osmotica, 1967, raccolto in G. D. a c. di Cesare Garbali, Il Saggiatore 1968, p. 142). Debenccktti, quindi, come critico-scrittore che si nasconde dietro i libri pc-r ivelarsi attraverso di essi. Non critico che inventa i libri e gli scrittori di cui parla, soverchiandoli con il proprio esibizionismo (il che può accadere sia a quei critici che abusano del mimetismo stilistico, sia a quei critici che abusano della strumentazione tecnico-analitica). Ciò che Debenedctti inventa non sono i libri e gli autori di cui si parla, quanto i propri itinerari e le proprie strategie di conoscenza. La sua voce che parla, anche attraverso i suoi scritti, di una ricerca in corso: che cosa poteva dare di meglio il suo insegnamento ? Non sembra che Debenedetti abbia mai dovuto fare particolari sforzi calcolati per mediare, come si dice, fra ricerca e didattica. Proprio lui che era già stato per qualche decennio uno dei critici militanti di punta della nostra cultura letteraria, non sembrava affatto sopportare le necessità didattiche come una fatica ingrata che imponga semplificazioni depau'peranti e avvilenti. Il suo pubblico era cambiato - tutto il pubblico e la stessa società italiana era cambiata. Ma la sua conversazione continuava. Sfiorava abissi senza precipitarvi, camminava sul filo delle argomentazioni come un acrobata, leggero, sapiente, e dava l'impressione che librarsi in aria con tutta la sua magica perizia fosse quasi normale, fosse il solo modo possibile e concesso di camminare dentro i libri, fra un libro e l'altro, rigirandosi fra le mani mille volte frammenti di teorie e figure di destino. Certo, come studenti che dovevano, infine, prepararsi a sostenere un esame, eravamo un po' a mal partito. Riassumere un saggio di Dcbenedetti è quasi impossibile. Se si va al nocciolo, si perde il meglio: cioè la polpa e il succo. Nella critica di Debcnedetti non ci sono frasi o passaggi da saltare, da buttare via. Nei preliminari e nelle parentesi c'è a volte il meglio. Come scrittore, Debenedetti sapeva usare tutto l'insieme del suo pensiero, organizzava sciami di intuizioni, le esaminava sotto gli occhi dei suoi lettori.L'arte di muoversi in mezzo ai propri pensieri, suscitati e movimentati dalla lettura di un libro, è sempre stata la sua arte. Ma come può avvenire che nelle sue pagine non ci sia mai zavorra e materia inerte? Che mai la sua prosa porti i segni della durezza selettiva, del taglio, della condensazione formulare? La sintesi definitoria non lo tentava. La sua critica non è fatta di punti d'arrivo e di punti fermi. È fatta piuttosto di volute e di peripezie. Fragili e tenaci architetture di concetti, polivalenti come meta~ore, eppure sempre sottoposti alla misura del suo intellettua!1s~o scettico dominato da un profondo senso della misura e del hm1te. Stile e buone maniere, affabile e signorile rispetto delle regole. La presenza di un cerimoniale ironico attraverso c_u!il C?tico: conversatore mette in atto una serie di pratiche prop1z1atone e di 95

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