servatori e le sale da concerto sono meno distanti dai santuari del rock di quanto si pensa comunemente. E questo non è neppure un fenomeno recente; si può dire iniziato proprio con lo sconvolgente ingresso dell'elettronica nella musica contemporanea. Nella concezione di un "profeta non musicista" corne John Cage (per cui la musica, più che in una partitura o in un disco·si concretiz1.a in un evento, come l'insonorizzazione di un parco pubblico) i suoni sono delle forme di energia naturale che non si possono dare ma soltanto cogliere. Analoga concezione ritroviamo anche nei ristretti cenacoli che hanno dato origine alle musiche ripetitive e minimali. Il merito di Eno, semmai, è stato quello di trasferirlo con grande immediatezza anche tra i produttori di pop music. In quegli stessi anni una rapida evoluzione tecnologica portava gli studi di registrazione a livelli di perfezione mai visti e permetteva ai non musicisti come Eno di individuarli come il più infallibile, complesso e insieme elementare, strumento compositivo. Qualcuno a questo punto comincia a sentire puzza di cialtroneria e di misticismo. Ma non si può fare d'ogni erba un fascio... E le strategie trasversali di Eno si dimostrano capaci di produrre dei piccoli oggetti sonori tutt'altro che trascurabili, strane creature che spiazzano gli atteggiamenti più abitudinari dell'ascoltatore e ne rigenerano la disponibilità. C'è indubbiamente dietro questa idea di "accettazione" del suono (o autoaccettazione ?) qualcosa di sospetto per la mentalità critica occidentale: qualcosa che suggerisce la vicinanza di discipline orientali, un'ambiguità di fondo in cui si confondono persino i concetti di attività e di passività. (Proprio come nell'approccio mistico, o come nell'uso del registratore). Tuttavia c'è anche qualcosa di assolutamente vero nelle argomentazioni di qµeste strane personalità, diverse eppure analoghe (nel sostenere il riscatto del non musicista). È indiscutibile per esempio l' inevitabilità del suono, com'è indiscutibile il fatto che l'orecchio non ha palpebre e che il colpo di tosse del vicino o il sibilo dell'amplificatore ci raggiunge insieme alla frase musicale, compenetrandosi ad essa. Tutto sta dunque nel come si gestisce questo rapporto con la musica, come lo si accetta e lo si orienta all'interno di un contesto precisot quello appunto ambientale in cui si sta vivendo l'esperienza. E l'energia, anche critica, che ogni individuo può trovare in se stesso a gestire questo rapporto e a renderlo attivo. Altrimenti si subisce l'ineluttabile rumore del consumo, l'accettazione che diventa passività ... un sordo ruminare di mandibole e chewing gum sui ritmi automatici delle macchine per suonare, una quaresima travestita da festa. . Siamo ormai lontani dagli anni in cui nasceva il mito del non musicista e il sogno di un grado zero del fare musica, davvero alla portata di tutti, sembra già bruciato nel vertiginoso esaurirsi di una moda. La catastrofe si è consumata appunto nel deserto della passività: le ultime illusioni superstiti sono state spazzate via dalle scorrerie di una terribile genia di zombies, che di solito vengono indicati con la sigla d-j. Si tratta di creature subumane, che attraverso corsi accèllerati d'iniziazione a base di linguaggio dei mass media e di marketing, sono diventati sacerdoti della comunicazione sonora. L'uso astuto e supereconomico delle tecnologie elettroniche permettono a costoro di costruire basi ritmiche e fitti intrecci di scorie musicali di svariata origine: un tappeto pulsante sul quale è possibile deporre qualsiasi messaggio verbale (basta affidarlo a un elementare recitativo, non necessariamente a un cantato). Con la giapponesizzazione del mercato elettronico l'hardware di base diventa sempre più facile ed economico: tutti possono provarci e 66 la ricerca di complessità o finezze timbriche è ormai quasi considerata una bestemmia riservata a pochi eretici. Eppure tra i primi neri del rapo tra i profeti della house music c'erano anche alcune personalità non prive di talento musicale e di voglie eretiche. Poi, si sa, tutte le religioni si istituzionalizzano ... Quando la moda arriva in Italia siamo già ali' onda di riflusso: il rap comico all'italiana vola alto quanto il cinema dei pierini, ma in fondo questo conta fino a un certo punto. Perché mai dovremmo prendere in mano il centimetro della critica e pontificare sui livelli artistici dei dischi di Jovanotti, Charlie e compagnia o stabilire di quanti gradini stanno sotto a quelli di Eno e seguaci? Perché pretendere, da venditori di fumo e sondaggi, di misurare quanta parte delle ultime generazioni s'identificano davvero in certe caricature demenziali o ci giocano? È assai più sensato limitarsi a constatare in che rapida involuzione (quasi un baratro) è precipitata in pochi anni l'utopia del non musicista. Ma va riconosciuto che dietro le prime ingenue esplorazioni non si nascondeva~o le strategie dei burattini dello show business: l'industria discografica era certo presente anche allora, ma restava spiazzata a guardare con sufficienza le evoluzioni di pochi clown indipendenti. Man mano che i padroni del circo riprendevano possesso della situazione, e dell'uso spregiudicato delle tecnologie su cui si fondava, tutto è cambiato. L' intero scenario si è spostato dal rapporto con la musica a quello con il mercato. E dinnanzi a questa ferrea logica economica conviene parlare solo di cifre, non di note. La musica non c'entra più. IP A .5 5 E R E L L A I SANREMO,GRUGNITIDI FESTIVAL PaoloGiovannetti Avolte penso che sarebbe meglio non parlarne. Del festival, voglio dire. Del Festival per antonomasia. Tutto procede secondo regole che ognuno _conosce, e che • ognuno svolge puntigliosamente. Tutti hanno, abbiamo il nostro ruolo: non se ne scappa. Prima di tutto ci sono i cantanti. Un manipolo di habitués, li possiamo anche chiamare i sopravvissuti o i coatti, che hanno bisogno della passerella canora-così si dice in gergo -per rinfrescare la memoria degli italiani: siamo qui, come sempre, vi proponiamo quello che già vi aspettate, siamo le facce e le voci rassicuranti di un tempo, e quindi, per favore, comprateci, gettonateci, ascoltateci l'estate prossima nelle piazze dei vostri affollatissimi e inquinatissimi luoghi di vacanza; noi non mancheremo. E sono i festivalieri puri: Al Bano e consorte, Cutugno, Fogli, Bongusto, Di Capri, Ricchi e Poveri, giù giù fino a una Pavone assente che a colpi di querele e di interviste, in fondo, è come se ci fosse. Sul versante opposto, poi, ci sono i Bravi (nel senso di validi), quel li che cantano la qualità, i poeti minori della canzone: che schifo Sanremo, che volgarità:,ma, sapete come va il mondo, se volete che la canzone intelligente sopravviva, n0i dobbiamo pur venirci, e voi intanto gustatevi i succhi preziosi del nostro talento, buttate via - se ci riuscite - il contorno che macchia la nostra eterea immagine, e date un po' di fiducia al patro11 rifatto che per il prossimo anno (ma da quanti anni ?) ci promette il vero rinnovamento, lariforma del festival vestito di nuovo. E via con Paoli, Jannacci, Vanoni, Caputo, Martini (?), Casale (??), Ghezzi (???), a suggerirci che la canzone, forse, è altrove. I televisivi, infine, i non-cantanti-che-cantano-e-che-f annospettacolo; loro, sono i più soddisfatti, mungono una rendita di posizione, sfaccettando abilmente la propria immagine: siamo quelli che se cambi il canale ci ritrovi, onnipresenti che cantano cantano e hanno tante altre virtù, e se cantiamo male, chi se ne frega, tanto
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