■ ll•l'llJl•l: ■ W FACCEFALSE. TELEVISIONEVERITA'SURAITRE Oreste Pivetta Una volta era la Rete povera e clandestina. Poi è diventata intelligente. La voce si è diffusa, si è alzata, si è moltiplicata. Toh, la Rete intelligente. Così, grazie alla sua intelligenza, una sera qui, una sera là, ha cominciato a scavalcare la potente Raidue nell'audience. (La ReteUno non si tocca). Adesso veleggia a tutta intelligenza, capace di tutto. Con una specialità: i processi. Si potrebbe obiettare che proprio il primo e il più seguito dei suoi processi, quello calcistico del lunedì, è un mezzo passo falso, perché di intelligenza ne sfodera poca: i soliti immancabili giornalisti, il pubblico in silenzio, l'automa che imita Biscardi pettinato come lui, il moviolone, qualche volta il presidente della Roma, Viola, una marea di chiacchiere su quel che sarà l'indomani calcistico, qualche bella rissa. Ma sento già l'intellettuale amico della Rete alzarsi e spiegare corsiveggiando che l'intelligenza sta proprio lì, nella finestra spalancata sul mondo (del pallone), nella porta del Bar Sport che si dischiude davanti a noi, nelle liti della stampa sportiva. Sociologicamente. Sta a noi, intelligenti, capire, decifrare, spiegare, fornire poi due o tre idee per la rivoluzione e, dopo aver tutto dedotto, magari riderci su. Sarà anche vero, ma così si apre uno squarcio nell 'animo della Rete Tre, quasi quasi !asi spoglia riducendola ad un ammasso di strizzatine d'occhi. Lasciamo stare se agli intellettuali, che abbondano di conformismo e d'ilarità, appaiono la prova la,mpante dell'intelligenza di cui si diceva. Anoi semplicemente non piacciono. Sembrano cioè volgari e rozze, classiste e razziste. Per questo in fondo, itl di là, di quel che si dice, il "Processo del lunedì" ci risulta il meno peggio: è sincero nella sua stupidità. 62 Ma con la storia della "finestra sul mondo" l'ambiguità procede. La tecnica è vecchia. Si piazza la telecamera, si accendono i registratori: oltre quelle lenti e quei microfoni la vita si · racconta nella sua regolarità, che diventa pretesto drammatico anch'esso, e nelle sue particolarità, alle volte tragiche. Ma è la vita? Oppure basta quella mediazione televisiva per trasferire tutto, problemi e banalità, nell'aria delle recite e del teatro? E la rappresentazione così, in un palcoscenico piccolo, senza contesti ai quali riferirsi, non si offre alle distorsioni e alle dispersioni più diverse? Una sera qualsiasi, in una puntata di "Allarme in città", il caso proposto riguarda lo sgombero di un paiazzone pericolante a Napoli. Il pretesto è un intervento dei vigili del fuoco. La telecamera li segue e racconta attraverso le loro mosse episodi diversi. Una volta tocca al salvataggio del cigno ferito dai bracconieri, che ha risalito ingenuamente il Naviglio, un'altra, allo stesso modo, con le stesse sequenze, al suicidio del drogato precipitato da non so quale piano. Banalmente la realtà si appiattisce. Le nostre emozioni prescindono dalle motivazioni. Spettacoli, si dice; E il drogato morto vale il cigno. A Napoli, 'nel vicolo, la gente protesta contro uno sfratto, difende quattro muri pronti a crollare. La telecamera insiste nel cesso, dove, in un angolo, crescono i funghi per l 'umidità, sul padre che dimentica il numero dei figli (nove), sulle donne che da una terrazza urlano e protestano esageratamente, parossisticamente. Racconta il folklore di una città piuttosto che la sua vita, le sue disgrazie, i suoi poteri. La macchina della verità manca il bersaglio e offre alcuni pretesti al colore dozzinale, intessuto di piccole ironie e lontani pregiudizi. Non mi lascia invece nulla, neppure il nome di un assessore colpevole, il sapore di una giunta, il pretesto qualsiasi per un giudizio politico. Non so neppure se ho assistito a un dramma o soltanto a una messinscena un po' chiassosa. "Un giorno.in pretura" non cambia. La telecamera è fissa, la sfilata dei personaggi è continua. Le piccole storie si susseguono anonime. Ma l'intento è apertamente educativo. La presentatrice è accorata negli intenti didascalici. Interroga il giudièe. Ma non capisco mai che cosa voglia insegnarmi. Un piccolo inghippo di tecnica giudiziaria? Un articolo bis? Il senso della truffa? Ma sono sempre truffe di poco conto, insignificanti, di pochi soldi in mezzo. Le altre storie esposte al giudizio del tribunale e dell'audience riguardano furtarelli, ladri d' auto, coppie separate, vicini che strillano, persino bambini dispettosi. La seduzione sta nell 'esposizione diretta. I protagonisti raccontano. E complicano le vicende in una testimonianza incerta e dialettale. Poi parlano le facce, i vestiti, le mani, le espressioni per lo più scoraggiate, intimorite, arrese. Con evidenza si misura la distanza tra la legge e gli imputati. L'incomuni- • cabilità è reciproca. Solo che la cinepresa è faziosa: c'è sempre un magistrato svelto, pratico di numeri, qualche volta impaziente e dall'altra pa.te qualcuno che non sa esprimersi, condannato in partenza dalla sua insufficienza verbale e culturale davanti al telespettatore intelligente, che segue lo schermo come il vetro di un laboratorio sociologico e può esercitare la sua gratuita vivisezione. Sarò poco laico. Non s~ò affatto cinico. I mali degli altri mi turbano, la televisione se ne serve. Come capita à "Io confesso" l'ultima invenzione di lv-verità. Un signore o una signora, dietro un pannello offuscato a metà, raécontano la loro storia, che è generalmente tremenda. Qui il primo piano è per i piedi dei concorrent1, unica inquadratura possibile (oltre a quelle riservate alla faccia contrita e inutile di Enza Sampò e alle espressioni represse dei tre invitati del pubblico). Le storie, oltre che tremende, sono per giunta ai confini della realtà per gli intelligenti che non si leggono la cronaca nera e neppure i titoli della "Notte". Così alla signora quarantenne che racconta.vent'anni di mar-
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