RISCONTRI ILCINEMA CHE LANGUE E LELACRIMEDOLCIDI ETTORESCOLA Gianni Canova È stato uno dei pòchi cineasti italiani contemporanei capaci di usare il cinema per farci intenerire di fronte alle cose della vita. Non sempre, beninteso. E non senza qualche punta di cinismo, qualche furberia, perfino qualche plateale vanità. Ma anche con la capacità di afferrare talora un sentimento autentico, di dar corpo a un'emozione genuina o a una sofferenza vera: magari facendoci toccare con mano la distanza fra come eravamo e come siamo, o fra quello che avremmo voluto essere e quel che siamo diventati. Di queste qualità-che sono poi quelle che hanno indotto alcuni di noi a riconoscere in film come Una giornata particolare o La famiglia un possibile terreno di confronto e di identificazione -inSplendorpurtroppo non c'è traccia. Con il suo ultimo film, sbarazzatosi in fretta degli aspetti più suggestivi del suo cinema, anche Ettore Scola pare adeguarsi alle mode correnti e fai propri i vezzi peggiori del decennio che sta finendo: il narcisismo ( sia pure nella versione attenuata dal filtro retrospettivo della nostalgia), il corporativismo senza freni e senza pudori, la presunzione appena appenama~cherata dietro l'alibi della "professionalità". Un malinconico film sul cinema, è stato detto. Un monumento a un Sogno che svanisce. O un requiem addolorato per un Rito in agonia. Giudizi impegnativi, non c'è dubbio. Fin troppo. Meglio forse provare a ridimensionarli un po'. Anche perché, nella sua dichiarata naìveté, 1' assunto del film è molto più semplice e immediato: il cinema sta morendo. Così, almeno, pare a Scola. Il pubblico latita, gli incassi crollano, le sale sono costrette a chiudere. Che peccato. Com'erano belli i tempi in cui il cinema era grande e noi eravamo tutti più giovani. I tempi in cui la gente gremiva le piazze dei paesi per vedere le ruote dentate di Metropolis ondeggiare su un telo all'aperto al suono roboante della "Marcia" dell'Aida.OqueHiincui si faceva la coda per entrare al cinema e ancor prima della proiezione in platea c'erano solo posti in piedi. Ora le cose non vanno più così. Del cinema non importa più nulla a nessuno, le sale sono deserte e la desolazione regna ovunque incontrastata. Di fronte a questa catastrofe - conclude Scola - non ci resta davvero che piangere. E Splendor apre impudicamente il rubinetto delle lacrime. Come se, in quest'Italia di fine decennio, non ci fosse altro da piangere che il cinema. O come se il cinema fosse veramente la perdita più grave tra quelle che questi interminabili anni Ottanta ci hanno costretto a subire. Ma ognuno ha le commozioni che si merita: lo Scola di Splendor si commuove perché la cultura di massa non impazzisce più per la celluloide. Ma tant'è. Splendor è un lungo, queruJo e lezioso lamento intorno a un fantasma. O a un vuoto. Anche in questo caso, come ben sanno gli stregoni e i chiromanti di tutte _lerazze, perrendere interessante il Nulla bisogna conferirgli un'aura sacrale. E Scola lo fa, con disinvolta souplesse. In singolare sintonia con altri titoli del cinema italiano recente (Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tomatore, Via Paradiso di Luciano Odorisio) anche Scola si converte a quella Mistica del Cinema che - sulla scia di euforie francesi- andava di moda da noi vent'anni fa. Benché non intitolato all'Empireo, né situato in una via dal nome celestiale, anche il cinemino di provincia di Scola è circonfuso di luci beatificanti: la sua architettura assomiglia singolarmente ad una Chiesa, lo schermo è un Pulpito, il personaggio interpretato da Marina Vlady è poco meno che una Vestale impegnata a tener sempre acceso il fuoco sacro. E i film? "I film sono una sorta di al di·là. Per di più uguale per tutti". L' edenizzazione è compiuta, il nirvana evocato: laico ed egualitario, ovviamente, tanto per non smentire la fede progressista del- ]' Autore. E il pubblico degli "infedeli"? Tanto peggio per loro se restano sordi al richiamo di così paradisiache sirene. Insensibile all'esigenza di interrogare davvero le ragior{i del pubblico, di capire i suoi silenzi e le sue assenze, Splendor è un esorcismo autodifensivo con tanto di finalino taumaturgico posticcio. Scola vorrebbe evocare la magia dello schermo e invece trasforma il cinema in· Marcello Mastroianni in Splendo, di Ettore Scola. '( Museo, lasala in Tempio, la visione in Liturgia, la memoria in Nostalgia. Più che un "amarcord" cinefilo·-militante, Splendor è un album di figurine spacciato per testo sacro del rito. Con tutti i film al posto giusto, allineati e coperti, senza sorptese né trasgressioni: sullo schermo del cinema Splendor di Arpino, nella vÒlontaria confusione fra bianco e nero e colore che caratterizza il flashback commemorativo del gestore di sala interpretato da Mastroianni, scorrono frammenti di un certo cinema, e solo di quello. Come se quello fosse tutto il cinema, per sempre. Ecco allora il neorealismo e la commedia ali 'italiana, Bergman e Tati, La battaglia di Algeri e Z-L' orgia del potere. Ma, guarda caso, non Bufiuel, non Kubrick, non Pasolini. E neppure Spielberg e Coppola. Perché Splendor è un bignamino .di cinema firmato Scola. Va di moda: ci sono festival che organizzano sezioni intitolate "Carte bianche a ...", o case di distribuzione home video che chiedono a critici più o meno illustri di "firmare" collane di classici in videocassetta. Con Splendor anche Scola entra nel gioco. Ci dà la sua privatissima "griffe", fra memoria e cinefilia. Niente di male, beninteso. Solo che questa faziosità andava, appunto, dichiarata, resa esplicita, fatta vedere. E, soprattutto, riconosciuta come tale. Invece Scola punta, come sempre, alla Storia e all'Esemplarità. E in tal modo incorre, sen1.aavvedersene, in un errore molto simile a quello che Manzoni rimproverava a Donna Prassede: il rischio di scambiare il mondo (del cinema) con il suo cervello. O- il che è anche peggio-con il suo privatissimo gusto. Se Scola avesse avuto il coraggio e l'impudenza di mettersi in scena di persona, invece di gigioneggiare sotto la maschera stanca e annoiata di un Mastroianni mai così distratto e "fuori ruolo", Splendor avrebbe potuto essere un brutto film importante, una spudorata e giustamente faziosa presa di posizione. Così è soltanto un canto funebre lamentoso ed autocommiserante. O una di quelle sterili querimonie che inducono a condividere l'opinione di chi ritiene il cinema un'invenzione senza futuro. 53
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