Linea d'ombra - anno VII - n. 37 - aprile 1989

!RISCONTRI ASIA, AFRICA,AMERICALATINA... FILMCHEVENGONO DA LONTANO: ILLOROSGUARDOE ILNOSTROSGUARDO Gianni Volpi Il Sudafricadell'apartheid, l'India della fame, l'emarginazione della minoranza maori: la forza di alcuni film del (o sul) Terzo Mondo sta anche nella loro capacità di proporre scenari diversi, temi e conflitti essenziali che sono scomparsi dall'orizzonte culturale del nostro mondo, e che in ogni caso non si sanno o non si vogliono più indagare nelle forme più complesse che hanno assunto. Certo, nel successo che alcuni di loro stanno ottenendo gioca anche una componente di esotismo e di falsa coscienza, ma una lettura, per così dire, "esotica" può anche essere la forma di un rapporto possibile e produttivo e non avere nulla di quello che Soyinka clùama il "tarzanismo" cr,itico europeo. Anzi ne esalta il potenziale di conoscenza nonostante la nostra distanza da un contesto terzomondista, lavorando invece sulla conflittualità tra le componenti etiche e culturali dei due mondi e facendo leva sulla nostra crescente permeabilità alle culture dei paesi post-coloniali (o emergenti:, tra i due termini corre un preciso discrimine di visione) che in concreto agisce come nostalgia di realtà, storie, conflitti, immaginazioni forti. Ma è pure una nostalgia con implicazioni non regressive su un'assenza, sulla perdita di una funzione di esperienza profonda che è della produzione culturale dei Nord del mondo. Come "cose che l'occidente ha perso e si ritrovano altrove". Premesso che in generale questi film resta-_ no lontani dallo sfruttare appieno queste potenzialità - com'è stato invece il caso per certi scrittori come Rushdie o Ben Jelloun, o certi cineasti come Rocha o Ray o il più giovane Brocka-, vale la pena di vedere, senza condiscendenze paternalistiche, come essi funzionino rispetto a noi. Diversi, e diversamente significativi, sono gli sguardi dei loro autori: esterno ma partecipe, da buon documentarista inglese democratico, quello di Un mondo aparie di cui si è già parlato; interno-esterno, indiano-americano, quello di SalaamBombay; del tutto interno quello diNgati, esordio di un cineasta maori, anzi primo film maori mai realizzato. Ciò che sembrano avere in comune è la scelta di un linguaggio estraneo a grandi avventure, ma di un realismo rigoroso e efficace, e un taglio, co~ me dire ?, decentrato: intimista, "privato" in Menges, il senso della militanza filtrato e arricchlto in un rapporto madre-figlia; esistenziale, melodrammatico nell'indiana Nair; culturale, antropologico nel maori Barclay. çome per una comune coscienza che il Terzo Mondo non ha bisogno di verità semplici e che esso vive una realtà che è anche, e prima di tutto, di autorepressione e che da essa bisogna partire. Per SaalamBombay si sono fatti tanti nomi come referenti culturali, primo tra tutti quello ovvio di Sciuscià: in realtà sono echi lontani, vaghi richiami alla realtà dei bambini abbandonati a se stessi che, tra microcriminalità di strada e solidarietà di gruppo, popolano i baraccamenti che circondano le grandi città latino-americaneedel Terzo Mondo, unarealtàraccontata da tanti film ormai "classici", da Los olvidados di Bunuel a Pixote di Babenco, passando per altri buoni esempi di Birri, Favio, FranIl piccolo protogonisto di So/aam' Bombay. eia, Murua, AlvarezoCiro Durancon il suo impressionante film-documentoGamin. Sono suggestioni marginali di uno schema consueto (una prima parte div itamarginale, una seconda di riformatorio e violenza) più che non reali somiglianze. L'occhio dellaregistaèquellodi un'indiana, formatasi alle scuole di cinema newyorkesi e trapiantata in quell'ambiente. Combina, cioè, una conoscenza diretta della realtà che racconta, quella dei bambini di strada di Bombay armati soltanto di fame e di coraggio, e una capacità di fotografare e narrare orizzontalmente l'inferno metropolitano e l'incrociarsi di tante derive esistenziali, che non è diversa, ad esempio, da quella del primo Jarmush. La fusione è di grande efficacia in tutta la prima parte, ossia la normalità della disperazione e della- lotta per sopravvivere, strade, ponti, lavori occasionali, intersecarsi di figure umane, ras di quartiere, dealers e venditori di té, drogati e piccole prostitute, ecc., in cui mette a frutto una sorprendente capacità di trovare la giusta distanza, né miserabilista né distaccata, e nello stesso tempo di lavorare con i bambini presi dalla strada, integrati con àdulti-attori. Rapidi tocchi, sequenze brevi, schizzi di caratteri, rapporti.appena accennati- tra Krishna e il drogato che si autodistrugge, tra Krishna e la giovane prostituta nepalese, tra la madre costretta a prostituirsi e la bambina costretta a giocare da sola, a grattare contro la porta a vetr-i,quando lei riceve i clienti-in cui s'insinua immediatamente la cruda realtà a renderli impossibili: è tutto un mondo "parallelo" che prende corpo, spingendosi sino al quartiere mussulmano con le sue fumerie. Un film d'esperienza e non di "studio", disperso come il mondo rappresentato, ma pure di ritmi serrati, "americani", e di sontuosa vivacità di colori. Non è che la Nair voglia dire più di quello che mostra, né che abbia velleità di denuncia, ma ci fa concretamente sentire una condizione indiana, nota ma raramente vista al cinema. Un film di questo genere che non dice cose davvero nuove, vive della forza di alcuni ritratti, e il piccolo Krishna ha l'impatto dei personaggi veri, in cui la distanza tra realtà e finzione tende a annullarsi. Eppure si ha la sensazione che, più che quel mondo, contino le sue "immagini"; c'è una "seduzione colpevolizzante".dell'immagine, tuguri e stracci, figure e ambienti, un colore che investe anche una condizione urna- . na innocente e vittima, quei bambini di strada, nonostante tutto, così integri, dagli occhl così grandi da non poter lasciare indifferenti. La Nair stessa confessa di aver voluto "mostrare la vita degli slums in modo non imbarazzante, senza giudicare". E non perché le domande di Krishna non abbiano risposte. Le risposte che la Nair dà, nella s.econda parte, sono quelle dello spettacolo. Quando il suo approccio sembra farsi ripetitivo, attiva le risorse del melodramma, non quello acceso del cinema popolare indiano, ma quello realista occidentale, fatto di ingiustizia e rivolta, di delusione e violenza. E non è una violenza bunueliana, che mette a nudo i caratteri profondi e deformi d_iun mondo, ne è un 'infrazione, un atto più o meno cosciente di rifiuto; qui è naturale e naturalistica, non esprime che se stessa. Aprevalere sono le ragioni del mélo, per quanto duro possa essere; fame, miseria, violenza fisica e morale impartita e subita da ciascuno, non possono che suscitare con il loro umanesimo generico l'adesione a buon prezzo di noi spettatori occidentali, magari affascinati dalla vitalità dei piccoli protagonisti come della regista. Più che dare la parola ai suoi protagonisti, è se stessa che la Nair sembra voler esprimere. Un'isola sperduta della Nuova Zelanda, nel 1948, è lo scenario di Ngati. Costruito attorno all'esile e consueta "favola" di un medico aussie che ritorna in un villaggio maori e che, all'inizio un po' sdegnosamente razionalista, via via scopre e riconosce nella sua dignità e tolleranza la cultura locale, sino alla rivelazione finale di essere lui stesso un mezzosangue, il film vive soprattutto dcli' autenticità con cui racconta una comunità, forse appena idealizzata. Lavori, riti, credenze, saperi, feste, rapporti interni e ra:pporti con i coloni anglosassoni, un paesaggio che non è scenografia ma ambiente, una fede magica che è la sostanza di uno stile di v!ta, c~e ne fornisce gli strumenti di interpretaz101!em termini simbolici di luce e ombra, che da un senso alla stessa morte di un ragazzo, che informa gli stessi momenti politici, le assembl~ per creare una cooperativa che imped~scalad~5J>C sione, l'emigrazione verso la citta, e volli ven, un gruppo e la sua memoria e le s~e.tante sto - rie e i suoi tanti, diversi caratten: _mrme. ~ viaggio assai piano in cui la suggeSllO~~esotica si fa trami te per una conoscenza dall mtemo di una cultura. 49

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==