Linea d'ombra - anno VII - n. 37 - aprile 1989

IL CONTESTO CONFRONTI Gli uomini del libro giocano con le Parole. le storie di Giacomalimentani AlbertoSignorini Il titolo dell'ultimo libro di Giacoma Limentani, L'ombra dello specchio ( Tartaruga, pp. 128, L. 15.000) a me sembra bellissimo. È infatti formato da una coppia di elementi - l'ombra e lo specchio - che disegnano due fra lè infinite facce dell'interrogazione umana, e compaiono in molte pagine della letteratura universale, dai miti classici alle favole. Che c'è di più enigmatico e perturbante dcli' ombra? Se la sua assenza caratterizza da sempre le creature incorporee e gli esseri senza pace, la sua alie~ nazione suscita un terrore irreparabile, derivantedallaperditadell'identità(comeChamisso e Hofmannstahl ci hanno mostrato). E che dire dello specchio, oggetto antichlssimo la cui matericità- oggi spiegabile in termini fisicochlmici-non riesce tuttavia a dar ragione della sua magia riflettente. Una magia che, se induce gli animali a volgersi indietro disorientati, costringe l'uomo a guardarsi, a prendere atto del proprio aspetto esteriore e, a volte, ariflettere sulla propria interiorità, emergente da quell'immagine specularmente riflessa. Già legate da sottili e inquietanti analogie, nel titolo queste due parole si trovano addirittura coniugate l'una ali' altra: l'ombra allo specchlo crea, così, una suggestione visiva che dà le vertigini: cogliendo lo specchiarsi enigmatico di un soggetto evanescente, spalanca una dimensione inafferrabile e priva di coordinate. Da N arei so ad Alice, da Peter Schlemihl alla regina di Biancaneve, dal principe Amleto al conte Dracula, ombre e specchi popotano una parte non piccola di quell'immaginario che pare forse rassicurante chiamare "collettivo", nel- !' illusione di esorcizzare paure ed angosce che, anche nella cosiddetta "civiltà dell'immagine", restano pur sempre individuali. Basti pensare eh' entrambi - ombra e specchlo - hanno direttamente a che fare con la luce, benedizione divina e dunque simbolo di vita, e con la vista, l'organo che "fa luce" sulla vita. Ma contemporaneamente rimandano ai loro opposti, Disegni di Emanuele Luzzati. 22 su cui pesa una sorta di perenne maledizione: l'ombra non è forse sinonimo di oscurità, simbolo della tenebra? Non è anche la mera apparenza, il simulacro ingannevole di chl non è più in vita, il sembiante stesso della morte? E lo specchio? La parola appartiene sì allo stesso etimo di "species" (immagine, aspetto), di "specola" (l'osservatorio astronomico), di "specolo" (lo strumento per esplorare le cavità del corpo) e di "spettacolo"; ma è anche parente stretta di "sospetto;' e, soprattutto, di "spettro": l'ombra inquieta e inquietante dell'oltretomba, al cui cospetto nessuno può impunemente speculare. Vacui giochl di parole? Perdite di tempo da eruditi? Non credo. Forse noi italiani, a forza di dirci eredi della civiltà classica, non ci rendiamo più conto delle straordinarie reti sotterranee che imprigionano le cose inconsciamente evocate dalle parole che pronunciamo. Ionesco, prima della conversione sulla via di Rimini, ha formulato un aforisma che non ha nulla di paradossale: "Solo le parole contano, tutto il resto sono chiacchiere"; e non credo sia un caso che la cultura cattolica abbia spesso rimproverato ali 'Ebraismo di dar troppa importanza al Testo e ai testi, ma soprattutto di giocare con le parole. È vero: gli uominidelLibro, come Giacoma ha chiamato gli Ebrei nel titolo di un'altra opera, giocano da sempre con le parole. Del resto, la Torah è santa in quanto parola del Dio vivente, che ha creato l'universo combinando le lettere fra loro; e l'attività inesauribile del midrash è un gioco serissimo che continua la creazione: il pensiero dell'uomo fa luce sulle parole, permuta le lettere che illuminano la realtà e le danno nuova vita. Cosa scandalosa per l'Occidente, le cui lingue operano una frattura insanabile tra piano verbale e piano fattuale della realtà. Ma l'ebraismo sa da qualche millennio che la parola umana conserva almeno una scintilla divina: è per questo che le attribuisce un potere formidabile, tanto creativo quanto distruttivo ? "Nel linguaggio degli antichi mistici ebrei - ha scritto Giacoma Limentani - la parte oscura, demoniaca, frenante e alla lunga mor - tale si chlamasitrà achrà: altra parte o, alla lettera, lato altro". E più avanti: "Ogni individuo ha un proprio altro. Il proprio altro sarebbe quella entità con la quale bisogna sempre fare i conti, in quanto prescindendo da essa non si può prendere coscienza del proprio essere. Anche e soprattutto quando il proprio altro è la propriaparted'ombra. Uncorpochenonproietta ombra è privo di sostanza". E Giacoma Limentani ci ricorda che perfino a un maestro della Torah-rabbi Elishà ben Avujà-un giorno accadde di divenire un altro, e per questo fu chlamato Akhér: Altro. Dunque al maschlle akhér e al femminile achrà, l'altra, che quando si colora del grigio umbratile sconfinante nel nero diviene appunto sitrà achrà: la parte altra, il cono d'ombra di quella potenza spettrale che alberga (forse indesiderata, ma certo non soggetta a sfratto) nella casa interiore di ciascuno. Ma, mi chiedo, non c'è per caso qualche rap- .porto di affinità fra questasitrà achrà mistica e quella alterità che dall'Edipo di Sofocle al dionisiaco di Nietzsche fino al mister Hyde di Stevenson e ali' unheimlich di Freud, la parte meno illuminista (ma non meno illuminata) del pensiero occidentale cerca da secoli di far rien- · trare all'interno dell'io, quale sua componente intrinseca e ineliminabile? Non è questa, nel senso letterale, la "bestia nera" del Cristianesimo, che da secoli vorrebbe proiettarla al di fuori o sospinger la al di sotto, nel regno delle tenebre, separandola in nome della "Grazia" dall'io? E non è che ostinandosi a negare la sitrà achrà che avvertiamo oscuramente in noi, il razionalismo finisce per negare l' akhér, l'altro, eh' è palesemente di fronte a noi ? È proprio azzardata, insomma, l'ipotesi che fra questo akhér interiormenteperturbanteel'Al!roconlamaiuscola, in cui Lévinas scorge il volto dell 'Eterno, ci sia qualche arcano rapporto? Non può essere infine, questo rifiuto della propria parte d'ombra, all'origine di una sofferenza ansiosa di specchiarsi nella sofferenza dell'altro? O, per dirlo con le parole di Giacoma Limentani, "quel tipo di infelicità che rende bisognosi di provocare l'infelicità altrui" ? Uno dei motivi che mi fanno amare chi, come Giacoma Limentani non si stanca di scavare nell'Ebraismo come in un terreno inesauribilmente fertile, consiste nella capacità di far emergere sempre nuovi tesori dallo straordinario articolarsi delle radici nella lingua ebraica. E così (qualcuno mi scuserà se ho scoperto l' acqua calda) mi sono felicemente sorpreso leggendo che: "La radice da cui deriva shalom, se coniugata nella forma intensiva, dà il verbo pagare, che esprime uno dei tanti modi per conservare la pace: io prendo una cosa da te, te la pago e siamo pari e patta. Sempre dalla radice di shalom deriva poi anche l'aggettivo shalém, che significa integro". Perché è stata una felice sorpresa? Perché, per una di quelle coincidenze che hanno del miracoloso e forse fanno lu-

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