co. Una cosa che Barba non ha mai rivendicato quando era di moda, limitandosi ad ammettere di voler fare col teatro una politica. Tutto sommato è questa politica che ancora persegue, ma sullo sfondo degli anni della glaciazione 1'0din pare aggravare il suo rovello etico, in un senso quasi provocatorio, aderendo più globalmente, insistentemente, alle esperienze d'una certa genérazione. Ciò è lampante se verifichiamo i molti punti di contatto fra Il Vangelo di Oxyrhinco e Talabot. Talabot infatti è percorso da richiami ai bonzi che si son dati fuoco, come Jan Palach, per motivi ideali; a Che Guevara, a figure che, vicine nel tempo, paiono remotissime alla cronaca, come iI ricordo della guerra del Vietnam. In riferimento a tutto ciò, ancora, l 'Odin riprende sfumatamente il simbolo livinghiano di Antigone, se Barba, nei suoi appunti, zigzagando, afferma di volertrattare la storia di un'antropologa che, trasgressivamente, con coraggio intellettuale, passadall' altra parte, dentro l'immaginario del suo campo di studio, disobbedendo-come I 'intellettuale e attore Artaud- alle regole e ponendosi così, dialetticamente, di fronte a chi, con coraggio fisico, viola le leggi e passa dalla parte degli altri: Che Guevara, colui che voleva "condividere l'esistenza dei poveri" e "seppe morire giovane". Da questo nucleo si possono tirare altri segmenti concettuali che riportano al Simpleton di Apocalypsis cum figuris di Grotowski e all'impianto della dostocvskiana "Leggenda del Grande Inquisitore", cioè a figure e situazioni che implicano la scelta o il rifiuto della liberazione da parte dell'uomo (un tema centrale anche ne Il Vangelo di Oxyrhinco, ilcui schema, come l'Apocalypsis grotowskiana, è la messa, ma capovolta nel suo non attingere una risolutiva redenzione). In questo gioco di rimandi, in Talabot, vediamo riannodarsi anche tutti i fili tematici e simbolici del teatro di Beck e Grotowski, che al di là ·d'ogni definizione o metafora esplicativa ed autoesplicativa (dialettica di Eros e Charitas, archetipi, "Paradise now!" ecc.), ha in fondo indagato la possibilità di dissenso e costruzione dell'uomo moderno, inteso non come massa, bensì come un potenziale Prometeo. L'Odin va ancora avanti su questa linea e Talabot è, peraltro, esplicitamente "la storia della generazione del 1948", quella che sboccia nella presa di coscienza del '68 che si rispecchia a sua volta in spettacoli come Ferai o Paradise Now; storia generazionale intensa che si sintetizza nella vicenda dcli' antropologa Kirsten Hastrup, la quale vive ed insegna a Aarhus e, durante una ricerca sul campo in Islanda, "vede il mondo delle fiabe", avverte cioè lo lluldrefolk, il popolo occulto delle leggende nordiche, che, per Barba, è anche il simbolo dei morti della storia contemporanea. Nella vicenda di Kirsten Hastrup che, per dare una qualità alla descrizione etnografica, "ammette la verità dell'Irreale" fino ad avvertire "l'esperienza reale del materializzarsi_ dell'Irreale", si riassume, inoltre, un po' il nocciolo del lavoro e della presenza dell'Odin, nell'isola di ghiaccio (Islanda) degli anni Ottanta; c'è la dichiarazione della sua fedeltà alla fantasia e agli ideali insidiati dalla storia e dalla moda; la sua disponibilità ai transiti dall'altra parte; la sua refrattarietà a "un mondo pieno di violenza e di scienza" totalizzanti; la sua urgenza di creare eventi, come Talabot, "sull'allontanarsi dalla realtà familiare" - un• espressione doppia dal risvolto privato, relativo alle crisi della vita di Kirsten; ma anche più generale, nel senso: da ciò che è familiare e consueto (non a caso il titolo dello spettacolo è il nome d'una nave transoceanica). Talabot è una rappresentazione di uomini e di maschere, scissa fra il rovello di far resuscitare certi morti (Che Guevara, Artaud) e l'evocazione della vita di così vivi che possono, come Kirsten, assistere al lavoro cui le loro esperienze han dato sostanza. Si tratta di uno spettacolo molto composito: intensamente lirico (con una precisa espressione drammaturgica secca ma poetica, già implicita nel suggestivo libretto che accompagnava Il Vangelo di Oxyrhinco come una specie di messale) eppure aperto lii grottesco ("E per un certo tempo facciamo a meno del vecchio tragico teatro") e alla Commedia dell'Arte, ma vista con l'improbabile sguardo di Callot e, al limite, dell' Arcimboldi. Insomma, un'altra "storia extra-quotidiana", un 'altra vertiginosa sezione di quello stream of consciousness che scaturisce dal!' allineamento di tutti gli spettacoli di Barba: un continuo magma di instabili fluttuanti visioni e citazioni d'attore (anche il programma di Talabot si esprime per "frammenti"). Se però consideriamo Talabot a parte, rileviamo che questa volta, non si sa dire se intenzionalmente o meno, le scaglie del flusso inventiIL CONTESTO vo dello spettacolo non appaiono amalgamate. C'è una storia portante, quella di Kirsten che Barba, poeta di donne, delinea con una adesione più calda, anche supportato dall'intensissima interpretazione di Julia Varley (Kirsten Hastrup) e Richard Fowler (Bent Hastrup ). Questi attori riescono a materializzare una vicenda piccola e vera ma dalle grandi risonanze e rifrangenze, sia quando si staglia sul fondale d'una linda e crudele Danimarca borghese sia quando si proietta sui paesaggi desolati e selvaggi ora di un 'Islanda da scena dei troll nel Peer Gynt o da Ubu re, ora di un 'India luttuosa e inquietante, dove Kirsten, immersa nelle sue ricerche - e questa è una delle scene più toccanti cui ho mai assistito in teatro - si riscuote ali' improvviso per contendere alla Morte (Iben Nagel Rasmussen) i propri figli, sul punto di esserle ghermiti dalle durissime condizioni ambientali. Attorno a questo nucleo Barba cerca di aggregare tante altre storie, richiama altre corrispondenze, ma restano sempre pallide rispetto ali' abc bagliante coin de réalité di Kirsten: Che Guevara è non più che un'ombra; Artaud una citazione fatta di citazioni, e solo piccole lapidi sono i vari cupi eventi degli anni Sessanta e Settanta che lo spettacolo evoca ossessivamente, fino a inseguire lo spettatore a casa, con una ennesima citazione contenuta in una busta sigillata e da aprire solo lì, che ribadisce il disagio dell 'Odin per l'immane carnaio della Storia, sentimento peraltro ben evidenziato nel finale dello spettacolo. La vicenda di Kirsten, con la sua nitida omogeneità, la sua pregnanza umana, ci riporta forse di più al primo Odin, quello eminentemente scandinavo, le cui strutture di rappresentazione avevano l'ariosa fluida spazialità delle architetture di Gunnar Asplund. Su queste, per accumulo di anni e di viaggi, di responsabilità e di fedeltà a certe "esperienze sociali, politiche e teatrali", l'Odin è venuto ormai a sovrapporre ghirigori di barocco andino, fregi mediterranei, bassorilievi di mostri e maschere orientali, con un riferimento sempre più marcato e insistito a una artaudiana "fame" che attanaglia il mondo, la vita, e rispetto alla quale bisogna "estrarre da ciò che chiamiamo cultura, delle idee la cui forza di vita sia pari a quella della fame". Possono disturbare in tutto o in parte queste stratificazioni, i segni e i richiami d'una contestazione socio-culturale, un po' terzomondista, che non si rassegna e che, occasionalmente, come in Talabot, fa perdere all 'Odin il nitore della forma sino a frantumare in episodi la "costruzione delle emozioni" comunque in atto. Ma la coerenza storica ed etica, l'impegno di testimonianza del gruppo di Barba debbono probabilmente correre certi rischi di radicalismo ideale e di citazione, che non derivano tuttavia da una fanatica ingenuità bensì da un genuino intento di provocazione intellettuale con il quale, piaccia o no, ci si invita con caparbietà a fare i conti - oggi, nelle solitudini di questa nostra Islanda, in cui nessuno ritiene di avere più conti da regolare con se stesso e gli altri. Eugenio Barba in una foto di Giovanni Giovannetti. 21
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