Linea d'ombra - anno VII - n. 37 - aprile 1989

IL CONTESTO Conti aperti Il teatro di Eugenio Barba Franco Perrelli · "Teatro? No grazie, è noioso" - è un titolo de "La Stampa" (4/4/ 1987) a commento d'una inchiesta Makno condotta a Milano, che viene a confermare quanto presumibile: che, a prescindere da un inessenziale 1,5% di spettatori che va a teatro per abitudine, ben il 76,4% lo frequenta solo per sviluppare la propria cultura e un altro 14,4% per informarsi; infine che la classe dirigente e il pubblico giovanile non paiono interessati alla prosa ritenuta "noiosa e piatta". Difficile indicare un'altra stagione della storia dello spettacolo nella quale si sarebbero potuti ricavare, anche per approssimazione, gli stessi dati; è verosimile che la nostra sia peculiarissima, ché a teatro non ci si è quasi mai recati con simili motivazioni nozionistiche e in fondo parascçlastiche. Quantomeno nelle epoche alle quali riconosciamo una maggiore vitalità teatrale e in cui più intenso è stato il legame, eminentemente fondato su un lato senso di partecipata emozione, fra attore e spettatore. Oggi, per contro, prevale questa specie di modello informativo, forse favorito da una abitudinaria fruizione televisiva, per eccellenza disinteressata, e si corre il rischio di poter dire per il teatro ciò che fohn Updike ha osservato per la TV: riduce il mondo a "famiglie sedute sui divani, come galline sui posatoi". Natalia Ginzburg, in un articolo del 1970, ha affermato che il teatro "qualche volta strazia e qualche volta no" e che quell "'essere coinvolti" che, nel senso più generale, sembra l'essenza vitale dello spettacolo, "può significare semplicemente cadere il preda all'attenzione". Di conseguenza, senza dogmatismi, ci si potrà appagare tanto di Ferai dell'O: din Teatret quanto d'un Goldoni strehleriano (che, bisogna ammettere, al fine dell'effetto, non sono, nonostante tutto, estremi così irriducibili). Questa della Ginzburg è una posizione mollo equilibrata e soprattutto realistica, ma non esorcizza, anzi conferma, la centralità nel discorso teatrale della fascinazione, dell'avvincere il pubblico: "cadere in preda", dopo tutto, è un 'espressione che richiama più il coinvolgimento profondo che la mera attenzione e finisce per evocare, implicitamente, solo un livello differente, ma necessario, dello "straziare" ovvero, per citare Tadeusz Kantor e per normalizzare un po' la metafora, del "costruire emozioni" - ciò che rende il teatro più comunicante, più associante, vicino alla propria essenziale natura storico-antropologica. Fa comodo credere che il compito della "costruzione delle emozioni"riguardi solo la cosiddetta "avanguardia" (anche se nei fatti certe tendenze hanno più strumenti e sensibilità per affrontarlo); tuttavia, dal punto di vista dell'intensità della comunicazione artistica, i termini di "avan- . guardia" e "tradizione" sono puramente convenzionali. In letteratura, il disarticolato Eliot e il serratissimo Thomas Mann toccano con pari immediatezza, inducono in una stessa vertigine-scegliere un modulo formale piuttosto che un altro è una individuale operazione di collocazione estetica, esistenziale e storica, ma non esime dal perseguire i fini di intensificata comunicazione dell'arte. Per il teatro, il punto sostanziale e se si vuole banale, è impedire che "la spranga della noia", come scrive Guido Ceronetti, "nell'ombra fitta dove sono le teste degli spettatori, lavori implacabilmente". Intanto, oggi, per una stanca complicità fra spettatori, teatranti e burocrazie, lo spettacolo è ridotto a cultura museale, a una didattica disinteressata e senza sorprese, risultando più che noioso, incredibile. Forse, perché, in primo luogo, è l'attore più che mai incredibile, non parlante, comunicante su un livello minimo e convenzionale, appiattito su un repertorio malinteso nelle sue risonanze storiche o su una concezione performativa e frigida dell'avanguardia. Bergman arriva a sostenere che ci sia dell '"irnmoralità" nell'interprete che non "tocca" il suo destinatario, infrangendo le "leggi che reggono l'arte": sull'interprete ormai si scaricano evidentemente tutte le conseguenze più gravi di quella che, in Anatomie del' acteur, Eugenio Barba ha individuato come la fatale scissione, nell'Occidente, fra danza e teatro, che "trascina l'attore al mutismo del corpo e il ballerino al virtuosismo". Sarà per questo che le rare emozioni che ci gratificano vengono soprattutto dalle forme di teatro-danza, le uniche che in qualche modo riconnettono lo spettacolo alla sua essenziale matrice mimico-ritmica, cioè a quel che, nella sua evoluzione, l'ha .reso coinvolgente e credibile, magari anche al di sotto di contingenti impianti psicologici e razionali. Nella storia del teatro, la pulsazione mimico-ritmica s'è ora gloriosamente esibita, ora rappresa almeno nella scansione d'una parola che, nei drammaturghi che ancora ci dicono qualcosa, ha trattenuto un battito musicale. Perfino nei maestri della cosiddetta "prosa": penso a Strindberg che a un'attrice alle prese con La signorina Julie chiede appunto di badare al ~'ritmo occulto che c'è in questa prosa"; e penso ancora a Stanislavskij che parla della "musica interiore di un ruolo". Era storicamente inevitabile e salutare che una certa avanguardia, nei primi decenni del Novecento, dovesse attaccare naturalismo e psicologia, ma la contrapposizione fra chi si faceva artefice dello spirito astratto della musica e chi l'aveva solo celato o sottinteso è, a ben vedere, molto meno netta, più quantitativa che essenziale, sotto il profilo dei concetti. Se oggi, comunque, la drammaturgia (come la regia-mera filologia di testi e non di emozioni) langue, ciò non dipende certo da più o meno scarsi premi o incentivi pubblici, bensì, in buona parte, proprio dalla fiacca sperimentazione su un nuovo ritmo poetico, su una contemporanea musica dello scrivere calata e rivissuta nel rappresentare. Queste riflessioni, apparentemente divaganti, mi si sono fissate dopo la visione dell'ultimo spettacolo dell'Odin Teatret, Talabot. L'Odin Teatret è un gruppo ormai storico che può essere associato a un rompighiaccio artico, il quale incrociando poche altre navi (tra cui quelle sulle quali navigano Grotowski, Brook e Kantor), procede sulla banchisa di questi anni Ottanta che il suo regista e fondatore, Eugenio Barba, ha a più riprese definito: "Un inverno che ha gelato alcune esperienze sociali, politiche e teatrali", evidentemente dei decenni precedenti. È ben vero-anche sulla scorta di quanto prima accennato -che gli anni Ottanta hanno una bassa temperatura e a tratti un basso profilo, ma tale consapevolezza non è per l'Odin una semplice boutade, un paradosso, un indifferente sintomo di inaderenza, ma un elemento condizionante che pone il problema di come sopravvivere in così svantaggiose condizioni climatiche, senza cedere ai rimpianti, conservando la propria identità e tenendosi pronti per tempi migliori (se mai ce ne saranno) . Inutile negare che la posizione dell 'Odin non è comoda: fa il "teatro povero" come venti e più anni or sono, con nessuna concessione alle mode, gli stessi temi e quasi gli stessi carismatici attori ormai non giovanissimi. Quando s'affaccia a certe ribalte internazionali-penso alla Biennale veneziana del 1985 - può persino capitare che il gruppo di Barba sia rifiutato da una critica che giura "di avere già vistò' 1 (marnai s'accorge di rivedere altri spettacoli, che poi vede da sempre). Più spesso l'Odin si nebulizza in periferia, in quei circoli sanguigni che un corpo crea d'emergenza quando le arterie, sclerotizzate, si cancellano, e allora lo troviamo in collegamento con formazioni come Mediterranea di Lecce o Drammateatro di Pescara, presso le quali m'è capitato di assistere a li Vangelo di Oxyrhinco (1985) e a quest'ultimo Talabot (1988) su cui mi soffermerò; sono formazioni che intendono essere i cardini di una nuova linea di difesa d'un territorio franco della teatralità e costituiscono un po' le basi nelle quali si concentra la varia azione culturale dell 'Odin che, attraverso questi alleati piccoli e vivi, può così toccare un pubblico più differenziato rispetto a quello omogeneo dei festival e delle élite delle grandi città. Ovunque, tuttavia, il fondamentale impegno dell 'Odin - se stiamo ai materiali dell 'IST A-Holstebro 1986- è "far provare esperienze" allo spettatore, ricostituendo un livello· radiante per quanto "in- · visibile" del teatro, sul quale la vita dello spettacolo è fluita ma ora ha necessità di condensarsi e quasi preservarsi, nella continuità della ricer19

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