Linea d'ombra - anno VII - n. 37 - aprile 1989

IL CONTESTO IMMAGINI Antropologo del contesto. le fotografie di Berengo Gardin Diego Mormorio Gianni Berengo Gardin, ligure di nascita e veneziano d'adozione, è forse il più stendhaliano dei fotografi italiani, quello che più di ogni altro è stato al tempo stesso instancabile, penetrante e leggero: un grande narratore che nel piacere di narrare ha trovato quello di capire. Di questa sua natura sono frutto i suoi oltre centoventi libri, di cui nessuno può essere dimenticato, perché in ognuno vi è quanto meno un'idea, ·un'immagine degna di restare. Da questa che è già una bibliotecaBerengo ha tratto ora quello che egli, con incantevole sincera modestia, chiama "il mio libro" e che noi crediamo sia più giusto chiamare "il suo Libro dei Libri". È il catalogo di una grande mostra antologica itinerante, pubblicato da Art&, una giovanè casa editrice di Udine impegnata nel settore della fotografia. Ma in questo volume che raccoglie tutte le fotografie della mostra vi sono diverse immagini che non erano mai comparse in un libro. E ve ne sono alcune - pochissime - che, come sempre in questi casi succede, vi sono entrate con sorpresa di quel pubblico che più attentamente ha seguito l' autore, senza essere belle come le altre; vi sono entrate, crediamo, per qualcosa che rimane nella mente del fotografo come un richiamo, un ricordo particolare. Berengo lo sa bene, anche se non lo dice. Sicché noi, davanti a queste pochissime foto "non belle fra le belle" possiamo e dobbiamo solo riconoscere l'attaccamento del fotografo ad alcuni suoi particolari ricordi. Tutto il resto è grande fotografia. Come succede con tutte le passioni durevoli, Berengo scoprì quest'arte lentamente, a partire dagli anni del liceo e delle appassionate letture di Hemingway, Steinbeck e Faulkner. Ma fu nel 1952, confrontandosi con altri futuri protagonisti della fotografia italiana, che giunse a una prima consapevolezza del proprio interesse fotografico. Passeggiando per Venezia, dove aveva un negozio di vetri di Murano, vide, per caso, esposte in una vetrina alcune fotografie del gruppo fotoamatoriale diretto da Paolo Monti, · "La Gondola", in quegli anni importante punto di riferimento insieme a "La Bussola" di Giuseppe Cavalli. Decise così di mettersi in contatto con questo gruppo e poi di aderirvi, conoscendo in tal modo, oltre al grande Monti, Fulvio Roiter, Toni del Tin, Giuseppe Bruno, Elio Ciol. Ma la sua concezione dell'immagine fotografica si rivela ben presto assai diversa da quella della Gondola, che, facendo riferimento alla "fotografia come arte", non ha alcun interesse per il documento. Berengo ha chiara consapevolezza, invece, che all'arte della fotografia si giunge indipendentemente dal suo soggetto e che, in ogni caso, il documento è parte fondamentale del suo interesse fotografico. Egli comunque a tutt'oggi preferisce non conside16 rarsi un "artista", lasciando tale appellativo a quell'esercito, recentemente numerosissimo, di autori che con qualche complesso vivono fuori dal mestiere e spesso dalla stessa consapevolezza tecnica e storica della fotografia. Egli si è sempre definito "soltanto" un fotografo, ritenendo che con nessun'altra parola si possa meglio indicare qualcuno che ha usato la fotografia per giungere a una certa consapevolezza del vivere nel mondo. Stimolato dal mito del reportage.nel '52 va a Parigi e vi rimane per due anni, incontrando grandi autori come Doisneau, Ronis, Boubat. È qui che abbandona la lenta Rolleiflex per Ùsare la maneggevole 35 mm, che meglio si presta al linguaggio del fotogiomalismo, delle fotografie colte a volo. Vaga per le via di Montmartre e i lungo Senna; fotografa e guarda fotografie. Così comincia a emergere il fotografo che conosciamo, il grande narratore. Da allora egli ha via via ampliato i suoi in- . teressi narrativi, fino al punto di divenire curioso di tutto ciò che può essere raccontato a altri: da una giornata trascorsa nelle sale della Borsa al viaggio intorno a un monumento. A Berengo può bastare un treno in ritardo per allestire un racconto. Come il protagonista di un recente romanzo di Vargas Uosa, egli ha il demone o genius del dicitore di storie. Con questo demone egli fa il primo passo dentro la storia della fotografia italiana nel '55, Do: Gianni Berengo Fotografo, Art& 1988. Sotto: Varese, seminario (1984); o destro: bottello sulla Senno (Parigi 1954). collaborando con "Il borghese" di Leo Longanesi e "Il mondo" di Pannunzio. Il suo passaggio al professionismo avviene invece solo nel 1962. In quell'anno abbandona definitivamente il negozio di vetri di Murano, per poi trasferirsi a Milano, dove comincia la sua collaborazione con il Touring Club, per il quale fotografa quasi tutto il territorio nazionale, con un criterio che gli permette di dare vita al più grande archivio italiano contemporaneo: fotografa cioè tutto ciò che sa di dover riprendere, quello che potrebbe in futuro risultare utile e quello che, indipendentemente da ogni committenza presente e futura, sente il bisogno di fotografare. A Milano Berengo si lega in amicizia con personaggi come Mulas, Buzzati, Zavattini, e intensifica, nel modo più naturale per un fotografo, e cioè fotografando, il proprio impegno civile, di cui è segno particolare il libro sui manicomi, Morire di classe (con testi di Franco Basaglia, Einaudi). Ma più in generale, il dato significativo dell'impegno di questo fotografo, del suo modo di vivere fotografando, sta nella sua straordinaria capacità di inserire l'elemento umano dentro uno spazio che ne spiega l'esistenza, e che è la forma di un dialogo tra uomo, natura e cultura. Da questo interesse "antropologico" nasce la scelta estetica di Berengo, la sua inquadratura contestualizzante. Egli infatti sostituisce alla normalità del 50mm quella del 28. L'usopriv ilegiato di questa focale non è mai stato per lui un vezzo formale - come quello che ha portato, soprattutto di recente, molti fotografi a servirsi di grandangolari tanto spinti che finiscono per occultare le cose abbracciate dall' angolo di campo dell'obiettivo-ma una necessità analitica che corrisponde al suo bisogno di capire e giudicare il mondo. Come ha scritto Zavattini, infatti, "questo quasi distratto personaggio ha sempre nascosto tra le ali le trombe di un suo proprio giudizio universale, forse lontanamente unpo' dolente,maquasisempreimmediatamente morale".

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