Linea d'ombra - anno VII - n. 37 - aprile 1989

CONFRONTI Il mito delle metropoli. Alcunilibri su NewYork Mario Maffi Nel suo ultimo disco New York (ottimo esempio di quanto siano ancora agguerriti questi grandi del rock), Lou Reed canta: "J'Jl take Manhattan inagarbage bagwithLatin written on it thai saysl lt' s hard to give a shit these days' IManhattan' s sinking like a rock, into the filthy Hudson what a shocki they wrole a book about it, they said it was like ancient Rome ... " Forse, in quei versi di Lou Reed (poeta rock newyorkese per eccellenza), è racchiusa la chiave del continuo fascino ambiguo che esercita Manhattan. Perché - se si evitano le facili esaltazioni come gli altrettanto facili anatemi, banali e stucchevoli entrambi, oltre _chenoiosi - si deve ammettere che di fascino si tratta: certo ambiguo e contraddittorio, tormentato e tormentoso - un fascino, come ha detto qualcuno, "spettrale". È - io credo, e almeno così è per me - il fascino per una metropoli che continua a funzionare come un gigantesco laboratorio sociale e culturale, una fucina piena sì di schianti e bagliori, fumo e frastuono, ma forse proprio per questo curiosa e intrigante. Laboratorio e fucina sociale e culturale di New York è stata perun secolo e più, almeno a partire dal Melville di Bartleby e dal Whitman della Città di guglie e alberi maestri, e continua a esserlo oggi: con la grande, tragica quantità di materiale di scarto che ogni laboratorio e fucina produce, ma anche con le forme complesse e i solidi corpi dei suoi artefatti più interessanti. Proprio quest' essere stata per un secolo e più laboratorio e fucina ha impresso e inciso dentro il suo tessuto una strana storia complessa - di genti e individui, di movimenti nell'arte e nella società di conquiste e fallimenti, di sogni e disillusioni -, che si può leggere e decifrare con meraviglia quando ci si riesca a liberare dal luogo comune, tanto snob quanto banale, secondo cui tutto ciò che è americano è privo di storia. Proprio a New York come laboratorio e fucina, come labirinto di storia e di storie che s'intrecciano e intersecano, si scontrano e divergono, sono dedicati alcuni libri recenti che ci aiutano nella sua lettura e decifrazione. Quello di Jerome Charyn (Metropolis, edizioni e/o, postfazione di Roberto Cagliero, traduzione di Anna Chiara Montefusco ), esplora la città in quanto "mito, luogo di mercato, terra magica": è un testo affascinante - ma a volte anche irritante, per certe tentazioni romantico-decadenti che affiorano qua e là-, e soprattutto un modo originale e personale di fare storia urbana (ne ha già parlato Oreste Pivetta, nel numero 1 di "Tic"). Charyn - che di New York è certo uno dei più articolati cantori contemporanei -ci svela le molte facce di questa "Metropoli": Times Square come Loisaida, Chinatown come Ellis Island, e intreccia urbanistica e avanguardie artistiche, passato e presente, mercato dell'arte e comunicazioni di massa, tematiche sociali e incursioni in bar e piccole gallerie, fra le tracce indelebili di ciò che è stato, l'effimero e la drammaticità dell'oggi, el' ostinata volontà di costruire anche con i detriti, in una città che è al tempo stesso regno degli yuppies e Alphabet City, fredda tecnologia/economia calcolatrice e caldo corpo di pulsioni appassionate e vitali. Questa "città-laboratorio" è anche oggetto d'un libro di Peter Conrad che si vorrebbe prima o poi veder tradotto in italiano, nonostante l'inspiegabile assenza d'ogni riferimento bibliografico e lo stile a volte troppo astratto erarefatto: The Art of the City. Views and Versions o/New York (Oxford University Press, 1984). Qui, abbiamo la città come instancabile ispiratrice di poeti, narratori, fotografi, pittori, registi, drammaturghi, tra Walt Whitman e Garcia Lorca, John Sloane Diego Rivera, Majakovskij eClaesO!denburg,O.HenryeGeorgiaO'Kecffc, avanguardie artistiche e cinema nero, Chrysler Building e Brooklyn Bridge: un' analisi densissima dei segni e delle icone del vivere e del creare in un contesto metropolitano continuamentecangianteecontinuamente reinterpretato e reinventato. Lo spesso tessuto storico che tiene insieme la città-la sua trama fitta e complessa-è ricostruito invece da Anka Muhlstein (Manhattan, Lucarini, traduzione di Ninetta ZandegiaLower Eost Side (arch. Garzanti). IL CONTESTO corno), che allaccia il passato della colonizzazione olandese al presente d'una città in crisi ("sinking like a rock, into the filthy Hudson"), attraverso capitoli che è vano cercare nelle guide di New York e che ci aiutano invece a muoverci meglio nel suo labirinto. Si delineano così gli scenari della New York degli uomini illustri e delle gangs, dei quartieri di immigrati e della macchina politica: una sorta di prezioso sottotesto alla metropoli nella sua quotidiana e ingannevole apparenza, una messa a nudo di quei meccanismi nascosti che fanno di New York, oltre che una "città-laboratorio", una "città-mondo". Ma, se New York è il mondo (per la sua complessità e spettacolarità, per le sue contraddizioni e aporie, per la concentrazione di popoli diversi), New York non esaurisce l'America, e nemmeno l'America urbana. Allora, per allargare il discorso e passare dalla Metropoli alle metropoli, ci viene in aiuto il bel libro di Roberto A. Bobbio,L' ultima città dell'Occidente. Il fenomeno urbano negli Stati Uniti d'America (Edizioni Lavoro, 1988, prefazione di Bruno Gabrielli). Si tratta di un vero viaggio attraverso la "diversità" -storica e contemporanea -dellacittàedcllecittà USA, in cerca delle loro caratteristiche più profonde, del loro legame con il passato sia americano che europeo, del loro impatto sull'immaginario collettivo e sulla creatività individuale, dei loro diversi linguaggi e scenari, realtà e prospettive, in un'epoca di profonda, innegabile crisi: un' esplorazione attenta degli sviluppi, dei nodi, delle contraddizioni urbanistiche, sociali e culturali di New York e New Orleans, Chicago e Los Angeles, del continuo moto della città americana verso oriente e attraverso i secoli e i decenni, e dei riflessi che quei modelli hanno avuto sul nostro (europeo) modo di vivere e concepire la città-un'indagine-guida rivolta a un pubblico ampio e condotta con strumenti e prospettive interdisciplinari, che risulta così estremamente invitante ed efficace. Ora, è vero che, tra verticalismi ossessivi e tensioni sociali, miseria crescente e dilagante imbarbarimento, inquinamento da profitto e caos da carriera e consumo, le città ci risultano sempre più indigeste, e che dunque parlare di "fascino della città" può sembrare paradossale e perfino provocatorio: specie se si tratta di· New York e della città americana. Eppure, il "fascino spettrale" è là, e continua ad afferrarci, come, in passato e in metropoli diverse, ha afferrato Poe e Baudelaire, Dickens e Balzac, Joyce e Dos Passos, Doblin e Benjamin e Kra0 cauer. Restano, al di là del fascino, il senso di un limite, la percezione di un rapporto irrisolto e non soddisfacente, di un'impotenza ad affrontare le contraddizioni implicite, che tutti questi libri (e i tanti altri che continuano a uscire, specie negli USA, in un'autentica rifioritura degli studi urbani) ci restituiscono puntualmente. A tale bisogno di sintesi dialettica non possono ovviamente rispondere i soli libri, né, tantomeno, le loro recensioni. Ma questo - è vero - è tutt'un altro discorso: e prima o poi anch'esso andrà fatto. 15

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