Linea d'ombra - anno VII - n. 37 - aprile 1989

Quella primavera del I937 non aveva respiro. L'impero conquistato in Etiopia; la vittoria del falangismo che si stava costruendo giorno per giorno in Spagna con l'aiuto dei nazisti e dei fascisti; la persecuzione contro gli ebrei, quella orrenda macchia di barbarie che lambiva ormai Hnostro Paese; il dramma oscuro e sconvolgente delle purghe staliniane; tutto sembrava soffocare le nostre speranze. Sempre più soli ci si sentiva, nella marea crescente di consensi al regime, e semprepiù frequenti e pressanti si facevano gli inviti delle persone "sensate" ad abbandonare posizioni senza prospettive, a prendere atto della realtà, a pensare al "tuo avvenire". Mi era rimasto nelle orecchie il colloquio, subito dopo la laurea, con il mioprofessoreOreste Ramelletti, la sua proposta di accogliermi come assistenteall'Università per avviarmi alla carriera accademica. A un certo punto mi aveva chiesto, e la domanda scontava larispostaovvia, seero iscrittoalleorganizzazioni fasciste e, alla mia risposta negativa, aveva ribattuto con noncuranza: "Non è un problema, possiamo provvedere subito". Quando, con timida fermezza, gli avevo replicato che no, io non potevo battere quella via, perché non ero fascista, i;niaveva guardato da dietro gli occhiali, con stupore, quasi con fastidio. "Che c'entra? è soltanto una formalità" aveva detto, lasciandomi intendere che si poteva benissimo avere tessera e distintivo del fascio senza alcun impegnodi partecipazione, per semplicerispettodelle convenienze, così come, indeterminate occasioni, si deveportare lacravatta anche se dà fastidio. La mia prolungata resistenza doveva essergli sembrata scioccaostinazione, e alla finemi aveva congedato con scarne parole di rammarico, con un "peccato!" che scaricava su di me la colpa di un rifiuto per il quale, evidentemente e in perfetta buona fede, non avvertiva responsabilità alcuna. Mi ricordavo anchequando mio padre mi aveva accompagnato da un noto penalista, già esponente del suo partito, perché mi prendesse nello studio, per fare pratica. Il colloquio allora intervenuto mi appariva anch'esso emblematico, per il rifiuto opposto dal professionista-compagnoalla richiestadi papà. "Non è opportuno" aveva detto. "Potremmo far nascere il sospetto che ci vogliamo organizzare, e poi, senza tessera, tuo figlio non potrà mai sfondare nel penale". Anche in quella occasione avevo avvertito nel nostro interlocutore un senso di controllatofastidio, quasi noi fossimo seccatori importuni, gente dalle pretese stravaganti. Gli stessi orientamenti che Mario [ Mario Venanzi] ci aveva spiegato, in cui si raccomandava di entrare nelle organizzazioni fasciste, politiche, culturali e sociali, e lì svolgere la nostra attività, non mi persuadevano; anzi, mi sembravano un cedimento e li sentivo fonte di confusione, di disgregazione più nostra che del regime. Non riuscivo a vedermi partecipare alle riunioni del G.U.F. o ai Littoriali della cultura o alle farneticazioni dei corsi di mistica fascista, e non ci vedevo nemmeno Mario,Lucio o Giorgio o Aligi [LucioLuzzatto, Giorgio, Todeschini, Aligi Sassu]. Di fatto, nessuno di noi seguì personalmente quelle direttive. Per quanto mi riguarda, reagii anzi iri maniera assurda e sconsiderata. Con Vittorio e Carlo [VittorioDella Porta, CarloCalatront] organizzammo un vero e proprio colpo di mano, l'irruzione in una piccola tipografia durante le ore di lavoro notturno.Non so a chi di noi e come ci venne l'idea, né se e quale collegamento avessimo tra STORIE/MALAGUGINI quelle maestranze. So che entrammo nella tipografia, e mentre Vittorio e Carlo distribuivano volantini, io, tra il rumore ritmico delle lynotipes e delle macchine da stampa, improvvisai un discorso, il mio primo comizio, dicendo di-libertà e comunismo e della miseria dei lavoratori e dei. falsi•orpelli dell'impero. Non posso sapere se sono stato ascoltato, ma è certo che nessuno mi disse di smetterlae che nessuno ci inseguì,quando ci allontanammo di corsa nella notte. Dell'episodio non feci parola con Mario, non tanto perché ero sicuro che mi avrebbe rimproverato severamente, quanto perché temevo, e a ragio~e, che la riostraavventatezza loavrebbemesso in sospetto, conducendoloamisuredi cautela nei miei confronti. Per la verità, un poco avventati lo eravamo stati tutti, quando avevamo accettato l'invito di Raffaellino [DeGrada] ad una specie di ricevimento organizzato in casa sua, a Porta Venezia. C'era moltissima gente, e di noi non mancava proprio nessuno, tranne Verdi [RodolfoMorandi]. Fu una serata gradevolissima, dominata dai pittori nella quale, dunque, si parlò principalmente di arte, anche se in termini tali da rendere esplicite le posizioni ideali e i comportamenti pratici di ciascuno dei partecipanti. Eppure iodiquella serata ricordo soprattutto i familiaridiRaffaellino, i genitori e la sorella, e in particolare il padre Raffaele, un pittore che mi è piaciuto sempre di più col passare degli anni. Rivedo la sua figura, improntata a grande mitezza, il suo parlare scarno e pudico, e l'ho negli occhi quando, al momento del commiato, mi accompagnò alla poria fissandomi con uno sguardo tenero e comprensivo nel quale c'era una venatura insiemelo rammenterò poi -preoccupata e quasi presaga. Ai primi di aprile, su suggerimento e per insistenza del dottor Bianchi, i miei deciserodi mandarmi a Bergamo, nella clinicadel dottorGavazzeni, dove sarei stato sottopostoad esami specialistici per mettere in chiaro cosa non andava nel mio apparato digerente e nei miei intestini. La prospettiva, per me, era attraente. Non mi sentivo affatto male e non nutrivo preoccupazioni di sorta per la mia salute. Così quel soggiornofuori di casa, addirittura inun' altraèittà, miprometteva giornate indipendenti, la possibilità di vedere cose e persone nuove, senzacondizionamenti o mediazioni familiari od' altro genere. Con la scorta della guida del Touring (anzi, secondo il vocabolario del regime,della "Consociazione Turistica Italiana'') e di un'altra pubblicazione illustrata, avevo cercato di documentarmi sulla città vecchia e sulla pinacoteca dcli' Accademia Carrara, e mi ripromettevo grandi cose. I miei compagni, naturalmente informati della mia imminente sortita, avevano deciso di approfittarne incaricandomi di recapitare a Bergamo materiale di propaganda. Erano due pacchi di volantini, che non lessi, stampati su carta sottile, e io li ficcai nel valigione: allora, almeno in casa mia, circolavano solo valigiedi dimensioni spropositate, difficili da maneggiare ma soprattutto da tenere serrate!Finalmente, pieno di aspettative, partii per Bergamo. La clinica era un poco discosta dal centro cittadino, e dopo essere stato sistemato in un'ampia camera con tanto di servizi autonomi, e dopo essere stato visitato e informato che le ana107

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