Linea d'ombra - anno VII - n. 37 - aprile 1989

GIANNI E IL SUO MAESTRO Angelo Petrosino Gianni, quando mi dissero cbe eri forse un bambino da "certificare", volli subito incontrarti e vedere cosa c'era in te che non andava. Cosa c'era che ti candidava alle cure speciali di un professionista. Cos'era che si annidava nel tuo cervello o erompeva dal tuo corpo e si rapprendeva nel tuo viso, si definiva nei tuoi gesti, si dichiarava nei tuoi sguardi e nelle tue parole. Fu con questo stato d'animo che.varcai il cancelletto della scuola materna che frequentavi e venni a trovarti. Come tutti i bambini già segnati, definiti e costantemente ridisegnati dalla voce pubblica, strapazzati dalla chiacchiera privata e dalla fama così feconda di particolari èhe avvolge l'infanzia degli altri; mi eri già noto per echi incerti e facevi già parte dei miei discorsi tuo malgrado. Perciò percorrevo i sentierini d'erba dove si raggruppavano i bambini con i loro grembiuli disordinati, e frugavo con gli occhi nei mucchietti di mani intente a rimestare la sabbia o nelle file che si accalcavano vicino alla scaletta dello scivolo dietro le cucine. Ero certo che ti avrei riconosciuto a colpo sicuro. Il compito m'era facilitato, perché ti sapevo gonfio e grasso. Che strano! Sembra che un bambino sofferente possa essere o macilento o grasso. E se la magrezza fa guadagnare un supplemento quasi spontaneo di tenerezza, la pinguedine trattiene gli slanci e deforma in parte i sentimenti: anche la comprensione e la pietà si nutrono di senso estetico, si direbbe. Perciò ho pensato spontaneamente che le tue maestre ti dispensassero, tutt'al più, la condiscendenza benigna di una gentile e disimpegnata ironia. · E io, che stavo per prenderti a sei anni sotto la mia tutela, che cosa mi accingevo a dispensarti? Ma no: io pensavo piuttosto a ciò che tu mi avresti dato. In questo mestiere circolo anch'io con la mia valigetta di buoni sentimenti e il mio libretto di morale universale. Ma ho imparato presto a diffidare di chi li spaccia sulla pelle degli altri, per garantirsi un soddisfacente benessere personale. E i bambini, in particolare, specie quando sono già domati a dovere dagli imperativi familiari, si prestano così bene a essere plasmati ulteriormente da educatori e da profeti. Mi preparavo così a darti, Gianni, non ciò che avrebbe confortato la mia mente, ma quello che potevi chiedermi tu; anche se ciò doveva indurmi ai compromessi faticosi e alle tensioni che insorgono nell'adulto, quando un bambino risveglia in lui il bambino che egli già fu, con le sue poche gioie e i molti orrori che gli fanno da corteo e da ossessione. Eri lì, ai piedi della scaletta che conduceva all'apice dello scivolo e ~he non osavi salire. Forse perché temevi che c~esse, forse perché sospettavi che non potesse contenerti, forse perché, semplicemente, non sapevi scalarla, mettendo un piede dopo I' altro, fino alla sommità. Salire una scala non sempre è un'impresa facile, e un bambino, pur disposto a commettere errori, si guarda bene dall'esporsi al ridicolo. Il rischio si corre, se alla meta ci son due mani che ti afferrano e che attenuano il tonfo, che quasi sempre c'è, quando hai sei anni e devi fidarti degli altri. 98 Tu, evidentemente, non confidavi nelle mani altrui e non osavi, saggiamente, esporti al danno e alle beffe. Te ne stavi pertanto immobile, sull'orlo della buca, a guardare i maschi con i grembiuli attorcigliati e le bambine con le vestine arrovesciate. Seguivi con gli occhi la loro breve corsa sulla lamiera luccicante, e sembravi tenere il conto del rosario dei passaggi, che si succedevano metodici e interminabili, dall'alto in basso, dal cielo alla terra. Nella mano grassoccia impugnavi un rametto ancora verde, col quale rimestavi senza posa la sabbia rivoltata. Poi, forse annoiato o esausto, ti allontanasti. Ancheggiando, tremolando, ti dirigesti verso un tappeto d'erba all'ombra sul retro della scuola. Decidemmo allora di seguirti, per venire a parlarti. Io dovevo fingere d'esser lì di passaggio, in una sorta di visita di cortesia ai miei futuri alunni, e non in esplorazione unica di te: futuro alunno da immettere sui percorsi dei camici bianchi e da collocare sotto i riflettori di scienze bisognose di perpetuarsi e di giustificarsi. Bambino, insomma, del quale servirsi, nell'illusione di servirlo. Una delle tue maestre ti fece un cenno e ti chiamò: "Ehi, Gianni, guarda un po' chic' è. Prova a indovinare chi è questo signore". Mi fissasti allora con i tuoi occhi liquidi e azzurri e mi attirasti irresistibilmente nella tristezza del tuo sguardo. Conoscevo quella tristezza, quella maschera docile e immobile che impietra in una trepida malìa il viso di un bambino. È la forma che assume il silenzio, l'assenza di attese, l'inerte abbandono. Una sofferenza muta così benefica per chi la contempla, perché lo mette di fronte a una statua dormiente, non al grido che erompe e disturba, né alla rabbia che si fa volgare e si sfrena. Il silenzio degli altri, e dei bambini in ispecie, consente infatti alle voci adulte di riposare e di tacere. Non rispondevi alle sollecitazioni della tua insegnante, che era venuta a disturbare il tuo silenzio e la tua passeggiata solitaria. Perciò lasciasti che fosse ancora lei a incalzarti e a riempire i vuoti del nostro disagio. "Questo signore sarà il tuo maestro di prima l'anno prossimo. Capisci? Il maestro di quella scuola dove vanno i bambini più grandi. Sei contento?" . Ma tu colltinuavi a tacere. Perché dovevi esser contento? Io ero per te un perfetto sconosciuto. Una possibile fonte di pericolo, semmai, come è in genere ogni adulto che allarghi con un movimento repentino la cerchia delle figure note a un bambino. L'unica sicurezza che potevi dedurre dalla mia presenza in quel luogo, era concentrata nello sguardo che ti indirizzavo. Potevi leggervi, e so che lo facesti per qualche secondo, quello che io leggevo nei tuoi occhi. Fu questa comprensione indefinibile, questa muta adesione al tuo silenzio, che alla fine ti sciolse la lingua e ti fece ritenere che valesse la pena dar consistenza al mio essere lì. Con una voce acuta che non avrei sospettato e una serietà intensa e indagatrice, mi chiedesti: "Come ti chiami?" Solo dicendoti il mio nome potevo cominciare a esistere e ad avere un senso per te. Potevo, cioè, cominciare a far parte della tua memoria infantile e dell'itinerario giornaliero in cui incasel-

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