Linea d'ombra - anno VII - n. 36 - marzo 1989

Tucker In famlglla (Compix/ Antinea/G. Neri). Ma chl era dunque W alt Disney? Lo si può utilmente leggere alle pagine 83-98 del bel libro di Bèndazzi, analisi tanto ampia quanto precisa di opere e autori di questo cinema "parallelo", separato perché fuori del mercato, ma che ha spesso polenùcamente rivendicato la sua diversità come base per un'assoluta libertà di invenzioni, figurative fantastiche ritnùche, e spesso per dare figura ai sogni e incubi degli uomini e del loro inconscio. Vi si sente un raro equilibrio tra ricchezza informativa e definizione teorica soggiacente, tra passione e analisi rispettosa delle ragioni interne delle opere, éhe illumina, anche per profani come noi, le coricrete potenzialità di un cinema in cui "gli avvenimenti hanno luogo per la prima volta sullo schermo" e che offre "la possibilità di inventare o orchestrare il movimento delle forme". Al suo sviluppo Walt Disney portò capacità imprenditoriali e talento. Ma pure ne condizionò pesantemente l'evoluzione in un senso più libero e colto. Egli "non fu né Pablo Picasso né Ingmar Bergman", fu il "massimo rappreMUSICA sentato, sub specie cinematographlca, della razza tutta americana dei fondatori di imperi". Il suo -era un cinema che "poteva essere fatto con arte, ma che rifuggiva dall'idea di essere arte", sempre in sintonia con i gusti di un pubblico che poteva riconoscersi nell'umanità dei suoi personaggi, a cominciare da Topolino, "tipico ragazzo medio, pulito, allegro, educato, in gamba quanto basta". Insomma, anche un efficacissimo diffusore di una versione rasserenante e pacificata del sogno americano. In Tucker di Coppola, il Sogno è anche più scoperto, e con llll fondo autobiografico. Tucker, che nel dopoguerra lotta contro i trustdel1'industria automobilistica che da Detroit tramano nell'ombra e lo costringono alla resa, è il doppio per nulla nascosto di Coppola stesso e del suo fallito tentativo di infrangere con la sua Zoetrope l'oligopolio delle majors hollywoodiane. Nessuna sorpresa che sia un doppio idealizzato, incredibilmente acritico. Come in un'ossessione dimostrativa e autogiustificazionista. Fuori i tanti episodi oscuri che lo hanno visto implicato sin dagli anni Trenta, fuori ogni complessità realistica o romanzesca. Il suoTucker è il grande sognatore, l'interprete dei desideri di massa - non il venditore di desideri quale non poteva non essere. Siamo oltre i film programmaticamente ottimisti di Capra. Ancor più che inRabbit, siamo in pieno Disney. Tutto era semplice.L'America era intatta, inventiva. La sua forza erano i suoi romantici avventurieri e inventori, allora ancora possibili ("se no, ci ridurremmo a comprare radio e auto dai nostri ex-nemici", dice Tucker ai giudici con DallaSardegnaa Vienna, iazz europeo dal sud al centro MarcelloLorrai Che l'album in solo di Antonello Salis, Salis!, pubblicato lo scorso anno dalla SplaschRecords, non figuri nell'elenco dei titoli che occupano le prime dieci posizioni tra quelli indicati come "nùglior disco" di jazz italiano dell'88 dai critici e operatori di settore consultati dal mensile "Musica Jazz" (nell'ambito dell'ultima edizione del referendum promosso dalla rivista), è un fatto-come altri hanno già osservato - con tutta probabilità attribuibile alla scarsa inclinazione del pianista per le pubbliche relazioni. Non è del resto una novità che Salis (trentotto anni, sardo di origine e romano di adozione) sia un bel caso di outsider: e si può dire che goda certamente di maggiore considerazione ali' estero, dove trova per lo più occasioni di lavoro, che in patria. Forse - si può sospettare - oltre che per la sua scarsa attitudine a valorizzarsi, anche per via di una personalità molto indipendente, che stenta a rientrare negli schemi un po' pigri del jazz di casa nostra. Indipendente non significa ostica, e anzi Salis è un musicista capace di grande comunicativa: se inqueAntonello Salls (~oto di Luisa Calrati). IL CONTHTO ironia retrodatata). Coppola racconta la favola (e in questo c'entra per qualcosa il suo produttore e cosceneggiatore Lucas) del capitalismo allo stato puro, numi tutelari Edison e Henry Ford; gli interessa soltanto l'elemento "energia'... la vitalità, la creatività o presunta tale. Strumenti riduttivi che gettano un'ombra inquietante sugli sviluppi ultimi dell'opera di Coppola che già nel pur più sentito Giardini di pietra ritornava sulla guerra vietnamita in una chlave anche troppo interna alle sue ragioni melodrammatiche e "private". Come in una taI'diva riscoperta dell'America degli "altri", quella dominante. E ora di un tempo di illusoria armonia. Volutamente, necessariamente, lo stile del film è quello ingenuo, lineare, efficace della pubblicità. Gli interessa più di "vendere il personaggio Tucker che raccontare la sua storia". Un film a immagine del suo soggetto. Un ritmo serrato, senza tempi morti, senza esitazioni, incrinature; immagini idilliache di epoca, di ambiente, di famiglia, ma mai povere; personaggi e attori schematici, appena funzionali, con un Jeff Bridges che involontariamente· disegna il ritratto di un "eroe della libera impresa e di un perfetto cretino" (cosa in sé non contradditoria) e con qualcosa in più nei ruoli secondi come spesso ilei film hollywoodiani. Insomma, una macchina cinematografica che forse funziona più delle Tucker, e al cui gioco euforizzante si sta anche troppo, con qualche vergogna. Come a ogni sognò semplificato di libertà e energia. Maquestanostalgiadiquesto tipo di sogno è un sentimento tipico di tempi cinici. Oltre che la via maestra del successo. 31

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