Linea d'ombra - anno VII - n. 36 - marzo 1989

IL CONTISTO nell'unico poemetto in cui il destino è battuto attraverso una semplice rivendicazione di orgogliosa solitudine, di quasi arrogante potenza: "Decifrai ogni cosa", dice Arianna. Le voci delle sue compagne si lasciano invece decifrare. Intessute di rime, incorporate alla lingua, moto in luogo, continua interrogazione dell'enigma dell'altro e non invece orgoglioso allontanamento da ogni equivoco, esse sono l'eco della nostra lingua, lingua della memoria e del1' oggi, evocativa, suadente, eppure distaccata. Singolare è anche che questo testo, in cui la rivendicazione di un sapere così sorprendente è esplicita e dichiarata, in cui il destino sopravvive solo nella memoria che abbiamo del mito e viene invece rifiutato da 'questa' Arianna, stia al primo posto della raccolta. I pezzi successivi cambiano infatti di segno, e tutti, soprattutto Gli adii, ci riportano alla percezione di un destino che non si può.neppure definire inevitabile. Nessuno infatti cerca mai di sfuggirgli, nessuno dei personaggi cerca di modificare il proprio cammino: non ci si allontana da ciò che CINEMA ci è stato assegnato. Poesia di partenze, ma partenze di altri, di abbandoni non innocenti eppure subiti, di sintassi più che di parole, di passo lungo, diventa concitata ed enigmatica inBreve visione per fare con Il poeta un gesto di testimonianza, solo momento ripiegato, in una poesia che è tanto più ironica quanto più è coinvolta, eticamente ed emotivamente, perché di una poesia etica si tratta anche, etica oltre l'intenzione, una poesia di parte, anche se la parte non è mai univocamente 'una' parte, ma di volta in volta quella parte che maggiormente si scopre, che rischia non per coraggio, ma per destino, che accetta il proprio caso e ad esso si dedica, come la modella di Guido, come la Beatrice di Nessurw vince il leone. Dicevamo poesia sororale, all'inizio, come condizione, più che come sentimento, sororale perché •si conosce' la sorella, nei gesti, e le donne di questi poemetti ci sono offerte nella assoluta chiarezza dei gesti e nell'enigmaticità del loro destino, indifferente al futuro, alla ragione, alla fine, buona o cattiva che sia "MimandaDisney" diconoZemeckise C~ppola Gianni Volpi "Mi manda Walt Disney", dice il private Eddie Valiant per entrare in un club esclusivo; ma potrebbe essere la parola d'ordine anche per Zemeckis-Spielberg, ma pure per l'incongrua coppia Coppola-Lucas. Domina Chi ha incastrato Roger Rabbit? e Tucker, i due film americani più significativi del momento, un'impressionante nostalgia del Sogno yankee, di un complesso di miti collettivi e trascinanti, riproposti non più, ovviamente, con la falsa coscienza di un tempo, né con la feconda ambiguità degli anni Sessanta, ma in chiave di disincanto un po' cinico e un po' spregiudicato, di sogno del proprio passato e del proprio cinema morti e sepolti.L'America è stata ed è soltanto Disney, con la sua perfezione tecnica e senza troppi problemi: un sogno immaginario e pubblicitario, in totale assenza di "realtà" e di "presente". Rabbit sta in apparenza tra passato e futuro, il passato dei "generi", del cinema d'animazione e del rwir in una Hollywood 1947 dell' epoca d'oro, e il futuro del cinema tecnologico, senza Autore e invece basato sugli effetti spe- · ciali, termine finale di una tendenza e una visione del cinema degli anni Ottanta. In realtà, si tratta di un "delirante flashback" nel mondo dei cartoons che riunisce quelli rassicuranti e antropomorfi di Disney e quelli cattivi della Warner, il non-sense di Tex Avery e le Lonely Tunes, Paperino e Daffy Duck, Durnbo e Wyle Coyote, Bugs Bunny e Pluto, ecc., in più ricorrendo a una sorta di meticciato tra figure classiche per inventare il protagonista. Forse, con un po' troppo di ecumenismo anche in questo campo, a scapito di una potenziale isteria. 30 L'idea di base era bella. I cartoons sono vivi, hanno una loro vita autonoma, logiche e passioni loro. Era come la realizzazione di un sogno infantile, quello di vivere assieme agli eroi dei cartoni. Non è un'idea nuova. Persone_ reali e disegni animati sono stati mischiati già da un pioniere come Emile Reynaud a fine Ottocento. Leggiamo nell'informatissimo libro di Giannalberto Bendazzi Cartoons (Marsilio Editori, pp. 677, L. 80.000) che lo stesso Disney giànelquadriennio 1923-27 aveva realizzato una lunga e fortlDlata serie, Alice in Cartoonland, caratterizzata dall'innesto di "una bambina in carne e ossa all'interno di un mondo di figure animate". Mai, però, si era giunti a una simile fusione; mai, cioè, essa era diventata I 'idea strutturante di un film. Un mondo possibile dell'immaginario di totale libertà, in cui tutto è fisicamente possibile. Purtroppo, Zemeckis e Spielberg hanno preferito puntare sulla tecnica (davvero eccezionale, specie nella sintesi dèi movimenti e nella trasposizione tridimensionale dei personaggi animati) come valore in sé, sfruttare l'idea di partenza come sorpresa fine a se stessa, senza sosta autoalimentatisi. Presto, si avverte come la tradizione del "nero", modo di rappresentazione che, con il suo "rapporto con la morte, il sesso, la casualità, la temporalità" opposto a quello dei cartoons, avrebbe potuto introdurre un fecondo elemento di frizione e contraddizione, sia in realtà del tutto marginale. Pur ampiamente citata e usata, è puro pretesto, non ha spessore. A poco a poco, tutte le figure finiscono per equivalersi, sono equiparate nell'unico vero valore del film, quello del gioco, del divertissement medio, secondo una concezione che è di Zemeckis, e sono via via spostate dalla parte degli umani secondo una tipica, conciliatoria visione disneyana. L'irregolarità è eliminata (''era un cartone un po' fuori di testa"). E la parata finale approda a conclusioni non delle più stimolanti: i cartoni esistono per far ridere la gente, lasciateci la nostra Cartonia, il nostro ghetto di sogno eterno. Una scena di Roger Rabbit (Touchstone/ Am&lin),

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==