IL CONTESTO poli che in epoche successive si insediarono nella Guyana e nelle terre caraibiche - portoghesi, africani, britannici, indiani. Ed è scopertamente allegorico il viaggio nel cuore della foresta pluviale. Innanzitutto come rivisitazione delle spietate spedizioni dei predatori europei, cercatori d'oro e massacratori di indios. E poi come viaggio verso l'interno, dentro di sé e alla scoperta di sé, dove il sé è tuttavia un sé collettivo e la scoperta è quindi di carattere universale: Donne si arrende, come dice Harris nella prefazione, alla gente che un tempo aveva sfruttato, ma la sua resa, che fa tutt'uno con la visione finale del Palazzo del pavone, vuole essere il superamento di un passato di violenza e di orrori e la nascita di una nuova coscienza che accoglie in sé l'eredità di popoli e culture diverse in nome di una riconciliazione purificatrice. Al di là delle allegorie e delle valenze simboliche è poi lo stesso andamento narrativo a · beffarsi di ogni preoccupazione realistica: i personaggi muoiono e rinascono nell'evocazione del narratore, ma forse sono già tutti morti prima dell'inizio del racconto (alla Missione "ricordavano tutti come non molto tempo prima lo stesso equipaggio fosse annegato fino all'ultimo uomo'') e sono quindi fatti rivivere e poi morire una seconda volta dal narratore per CONFRONTI infine rinascere nella visione del Palazzo del pavone. Gli abitanti della Missione sono gli indiani Arawak, gli antichi abitanti della foresta, in cui scompaiono all'arrivo di Donne. Non li vediamo mai.L'unica loro rappresentante è una vecchia che viene aggregata a forza alla spedizione. La donna appartiene a una razza "che andava sparendo", ma piena della saggezza del millennio passato e capace di trasformare la crudele persecuzione in "intuito universale". Questa razza è depositaria del "mito profondo che si nasconde in culture cosiddette selvagge" e che Harris apparenta a quella narrativa del ventesimo secolo lontana dai canoni del realismo. C'è dunque una corrispondenza, nelle intenzioni di Harris, tra la forma letteraria da lui adottata e i modi di sentire del popolo amerindio, tra la sua parola sofisticata e il sapore ancestrale degli Arawak - e della gente caraibica, in cui si intrecciano i sottili legami tra le culture e le razze che l'hanno generata. Nel romanzo c'è un senso del magico, del- !' arcano, del soprarazionale che affonda le sue radici in una popolazione e in una natura "altre", e che da esse deriva la sua legittimazione emotiva. . Ma c'è anche un disegno retorico che apertamente dichiara il suo debito alla tradizione Quattroopinioni a caldo sul primoromanzo di Gianfranco.Bettin letteraria britannica, come mostrano le citazioni da Blake, da Yeats, da Donne, da Hopkins e dalla Bibbia inglese poste come epigrafi alle quattro p~ti del romanzo. E come ancor più evidenziano certi rinvii al Conrad di Cuore di tenebra, al Coleridge della Ballata, allo Hopkins de1NaufragiodelDeutschland. Dalla compenetrazione e dall'equilibrio tra queste due componenti nasce la scrittura visionaria di Harris, così piena del senso della magia della sua terra e così rispondente alle suggestioni della cultura esoterica europea. Talvolta però tale equilibrio si spezza, il disegno retorico prende il sopravvento. Ed è proprio quando la comunicazione appare più fortemente debitrice a stilemi e referenti culturali a noi più vicini che maggiore diventa il nostro distacco. Si pensi invece ad Arguedas, a Guimaraes Rosa e a Carpentier, per citare tre autori sudamericani tra loro diversissimi ma, ciascuno a suo modo, capaci di trasmetterci in modo mirabile il senso di un'esperienza e di un mondo. In loro l'invenzione letteraria, con tutti i suoi debiti nei confronti della cultura europea, ha un ruolo di decisiva importanza; ma la Letteratura non si impone mai al materiale narrato. Questo nel Palazzo del pavone, accade spesso. D'altronde è pur vero che non tutti possono essere i tre maggiori scrittori sudamericani. Goffredo Fofi: Una volta non è norma, e dall'altra parte non c'era modo più semplice per segnalare un romanzo che ci sta a cuore, di un autore che è tra i collaboratori più assidui e migliori di "Linea d'ombra", tra i pochi in cui cultura e partecipazione politica così strettamente e esemplarmente si confondono. Gianfranco è un "militante verde", lavora a Marghera dove è nato, e sa di cosa parla, in Qualcosa che brucia (Garzanti, pp.234, L. 24.000). È il suo primo romanzo, ha molte delle incertezze di un debutto. Il "passaggio" del suo protagonista dall'apprendistato veneziano a una "terraferma" di orrori sia adulti che giovanili, fatto di una disperazione data anche dalla odierna e generale cospirazione per rendere la ribellione inefficace, non mi sembra sempre riuscito, per il suo didascalismo; e incertezze affiorano anche prima, qualche goffaggine, qualche caduta, qualche effusione. Eppure, di fronte alla letteratura detta giovanile degli ultimi anni- ferma restando la partecipazione a un retroterra culturale che non appartiene solo a lui, a un tipo di sensibilità che è stato ed è di molti altri-Qualcosa che brucia presenta una novità non da poco, che vedo nel retroterra sociale e morale dell'autore, nella sua tensione politica, nella sua esperienza, nella sua generosità così pooo "laica". La letteratura giovanile, e non solo, italiana, è opera per lo più di giornalisti e addetti ai Foto di Vincenzo Cottinelll (G. Neri).
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