Di "Samarcanda" mi ha colpito la scenetta successiva e finale. Ribatteva il presentatore al ministro: chi se ne frega, vada pure, diamo laparolaachididrogasene intende, i drogati. E ·così, telecamera in spalla, si entrava in una sala di un carcere di una città veneta, raccolti attorno a un tavolo alcuni tossicomani. Ciascuno riferiva l' esperienza personale, raccontava i suoi dolori, le sue angosce. Toccava al più anziano chiudere, magro, scavato, i capelli lunghi, una sorta di icona viaggiante del suo male e della droga. Le parole ci giungevano tranquille, persino serene, soprattutto rassegnate. Blande e familiari. La sala carceraria era linda, accogliente, alcune librerie circondavano il gruppo. La luce scendeva calda. La situazione era rassicurante. L'ultima domanda: "E dopo il carcere?". La risposta, più o meno: "Niente". Campo lungo. Dissolvenza. Fine. Lo spettacolo era fatto. Si poteva chiudere. Forse si doveva dire qualche cosa, forse una parola di speranza, qualcosa che sciogliesse i nostri pensieri e quelli stessi del giovane tossicomane in carcere, dalla immobilità di un destino segnato. Invece rimaneva li per aria quel "niente", unica cosa reale e non solo verosimile di quella trasmissione televisiva. Siamo rimasti anche noi per aria, senza ottenere una idea più precisa attorno alla legge, alla droga, ai rimedi, come mille altre volte, e come mille altre volte potevamo leggere la distanza tra noi, la televisione, la questione in discussione, una volta il drogato in carcere, un'altra volta il malato di Aids, un'altra ancora il bambino che muore di fame nel deserto del Sahel. Il drogato restava lontano da me, da un cittadino virtuoso e comune, esattamente quanto lo era prima, perché anche quel movimento di solidarietà istintivo che le immagini inducevano si spegneva con il telecomando. Come se nulla fosse accaduto, mettendo a nudo l'abisso tra me e il drogato, che per mezz'ora la televisione aveva annullato facendomi penetrare, nel buio della stanza, attorno al chiarore dello schermo, nella sofferenza di un altro .• La solidarietà ha dei limiti, di tempo, di. spazio, di lingua. Forse limiti dettati, prima ancora che dalla cultura o dalla psiche (per una refrattarietà naturale di fronte a qualunque persona si presenti diversa o malata o incompleta), da ragioni molto più solide e materiali. Nella chiesa antica si discuteva se alleviare le sofferen~edei poveri fosse un obbligo oppure un atto volontario. Se si fosse riconosciuta valida la prima ipotesi si sarebbe anche riconosciuto il diritto dei poveri a intaccare per soddisfare i loro biso gnile proprietà dei ricchi. Persino Tommaso d'Acquino vide con grande paura questa possibilità, perché riteneva che la proprietà privata fosse alla base della società civile. Quindi va bene la solidarietà ma con vincoli, ristrettezze, gerarchie ben precise e funzionali a quel modello sociale. Se si doveva aiutare qualcuno si,cominciasse dai parenti stretti, dai genitori e dai figli, poi toccasse ai fratelli e in ordine gli zii e i cugini. Il drogato, che non è mio parente, rimanesse buon ultimo, con il malato e l'etiope affamato. L'universalismo cristiano era fin dal tempo dei primi cristiani dimezzato. Non ci risulta che la proprietà privata, malgrado qualche tentativo, sia stata sovvertita nei secoli successivi. Neppure altre barriere, di razza, di religione, di lingua, di colore, sono state abbattute. Tutto procede felicemente peggio di prima, perfettamente documentato dalla tv, che ha, con più efficacia delle prediche o degli affreschi delle chiese cristiane e con ben altra immediatezza, il pregio di documentare tutto, lasciando però indifferenti davanti a tutto. Diciamo che una volta la informazione era ben più ideologicizzata e ferreamente intesa alla propaganda. Adesso la televisione ha una virtù specificamente documentaria: passa in rassegna i disastri del mondo, schiera in passerella vittime e carnefici, vale come un ambasciatore freddo di cattive notizie. Ma lo scorrere rapido delle immagini, che sembra pianificare e livellare tutte le disgrazie del mondo, cede di tanto in tanto, rivela i suoi fondamenti di parte, perché la televisione non sa mai rinunciare al suo atto di devozione nei confronti del potere, perché rimane davanti al popolo dei telespettatori il luogo di consacrazione di una autorità partitica. Sceglie ancora, insomma, i suoi buoni e i suoi cattivi. Questa discriminazione mi confonde le idee ma non mi impedisce di riconoscere almeno le vittime. Tra le quali non posso non considerare il drogato in carcere, che nell'ultima decisivarisposta, "niente", testimonia la sua condizione di totale isolamento. Lui vede che sono andati distrutti tutti quei rapporti sociali che avrebbero dovuto salvarlo. È solo. Ma deve pensare che la sua non è una questione privata, che una infuùtà di altre vittime popolano ilpianeta, le vittime dell 'Aids, quelle delle carestie, quelle di tante piccole catastrofi ecologiche. Le vittime diventano maggioranza, potrebbero esserlo tra breve. Per loro dovrebbe valere un vincolo imposto alla solidarietà, un obbligo che diventa la legge di sopravvivenza del pianeta. Cistiamoperdendo,fuùta"Samarcanda". Non credo che la televisione abbia il compito di ricreare la fratellanza universale. Ma un obbiettivo morale se lo dovrebbe pur porre, perché si è sempre parlato di infuùto potere a proposito della tv e sicuramente la tv (persino quella commerciale, che pure in Italia ha inventato uno spot Fininvest, auspice Costanzo, contro la droga) si presenta come "autorità" e sarebbe capace di inventare nella classifica delle notizie un ordine inverso alle cose del mondo, se tentasse come me di riconoscere prima di tutto le vittime. Impossibile forse. Non è a Craxi o a De Mita che interessano i drogati. Come scrive un politologo, Down (equi cito Bobbio sulla "Stampa" e Pasquino su "L'Unità"), i politici non chiedono voti per realizzare progetti, ma formulano soltanto proposte per ottenere voti. Alla rivoluzione (che non credo appartenga peraltro al nostro secolo) indicataci da Down segue tutto il resto, compreso l'uso che la tv e la stampa ci hanno mostrato della droga e di una infinità di altre sciagure, tutte tradotte in immagini e statistiche, trasformando in bene di consumo le sofferenze altrui. Lahit parade degli orrori mondiali si piega alle esigenze dello spettacolo, che è tanto più efficace quanto più riesce a coinvolgerti, presentandoti i mostri che ti possono aggredire ma segnalandoti anche la distanza che li separa da te. Leggere i reportages di "Repubblica" sulla diffusione delFoto Team/Grazia Neri. IL CONTESTO 1'Aids in America o in Italia rasenta l'autodistruzione. Al primo capoverso cominci a grattarti, al secondo ti tocchi il collo in cerca di ghiandole pronunciate, al terzo arrivi a pensare a un brivido di febbre. Fin qui sono i sintomi. Poi c'è la discesa nelle perversità, nei circoli esclusivi per omosessuali, nei retrobottega, nelle siringhe delle droghe, senza trascurare, pur con discrezione, i salotti degli oppiacei. Quindi ci tocca la lunga peregrinazione nei laboratori di ricerca, nelle cçrsie degli ospedali, tra le provette infette e lo scetticismo di medici e professori. Infine c'è la ricetta, che se considerate bene non è diversa da quella proposta da Donat Cattinnella sua bella lettera agli italiani: una sana famiglia e tanta castità. Gli ingredienti sono quelli di un qualsiasi film maccartista di qualche anno fa con l'aggiunta di alcune scene pomo: orrore, morbosità, spregio, sentimenti patriottici. Droga e Aids hanno regalato un impasto straordinario, una merce che vale oro nell'audience e nelle tirature, éhe conta assai nella distribuzione dei voti (come ha capito Craxi, che ha colto, oltre al pietismo di maniera, il perbenismo insofferente e carcerario dei tempi). A questo punto diventerebbe superflua la domanda banale che mi sono fatto, il mio interrogativo "che fare per la droga". Non ho risposte e le risposte sarebbero inutili, non ho letto analisi se non di generica sociologia, e spesso sono contraddette. Se penso alla fratellanza contro la distruzione del pianeta mi viene il mal di testa. Piccolo e impotente non salvereineppureunalberodell' Amazzonia. Spero che ci pensi la tv, nostrachiesaquotidiana, perché la soluzione dei problemi comincia dalla rappresentazione che se ne dà nella nostra cultura. 7
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