STORIE/SINIBALDI Un po' della nostra storia e dei nostri anni. Un frammento, una scheggia di un fallimento collettivo, ma anche una differenza, una diversità, una solitudine. pologica dell'umanità. Sono parole grosse ma, in fondo, sono cose pensate da molti. Roberto cominciò a cercare in questa direzione insieme a tanti altri - intendo a tutti quelli che, delusi dall'insufficienza della politica, avevano cercato di andare più a fondo nel capire l'uomo, la storia, il mondo. Ma Roberto pensava queste cose (e a queste cose) con più radicalità, con più intransigenza'., con più irriducibilità di altri. E anche con più dedizione: non ho mai conosciuto nessuno che con tanta foga, tanta risolutezza, tanto assoluto impegno si mettesse - quasi di colpo - a leggere, studiare, :riflettere intorno alla Bibbia e ai testi fondanti delle religioni, ai miti greci e all'amore medievale, alle storie della Tavola Rotonda e a Freud, Lévi-Strauss, Nietzsche e Wagner. Lì cercava disperatamente una chiave, una spiegazione del disagio suo e di quelle persone che conosceva; ma cercava anche, più o meno esplicitamente, le cause di un fallimento e di una sconfitta che sapeva collettivi. Quella sconfitta, per Roberto, dipendeva da un generoso ma imperdonabile fraintendimento. L'errore era stato di confinare i rapporti sociali e la loro critica negli angusti confini della "materialità". E la possibilità di salvezza non poteva venire da una rivoluzione politica, che rovesciasse solo una piccola parte dell'oppressione esercitata sull'umanità (e che l' umanità esercita su se stessa). Occorre molto di più, diceva Ro- 'berto. Troppo di più, pensava chi ascoltava. E a quel punto, forse, la mente di Roberto cominciava a perdersi. All'inizio, quando veniva a Roma da Lanuvio, mostrava con entusiasmo i primi appunti, le fotocopie commentate della Bibbia. Pensava che Adamo, il primo uomo, sono in realtà due uomini diversi, due modelli umani contrapposti: .l'uomo libero e l'uomo represso, bestiale, schiavo. Il Peccato originale e l'arrivo sulla scena del mondo del secondo Adamo non cancellano l'esistenza del primo. Sono piuttosto come due possibilità parallele, di cui Roberto individuava le tracce nella storia, l'antropologia, la letteratura, fino ai nostri giorni. E Roberto sentiva se stesso e i suoi amici come protagonisti di questa storia, alfieri di questa possibilità di liberazione. Gli amici ex-compagni lo ascoltavano con molta accondiscendenza ma anche con scetticismo e una certa incredulità. Qualcuno anche con fastidio; e con gli anni il numero degli interlocutori scese considerevolmente. Nel frattempo a Lanuvio Roberto aveva trovato amici nuovi e diversi, più giovani, liberi dalle ipoteche di un passato troppo pesante. Amici con cui comunicava con più semplicità e immediatezza e divideva la normalità della vita quotidiana, ma che non lo potevano compensare di altre assenze, altri silenzi. Il punto è che per Roberto i pochi amici rimasti erano anche gli unici anelli di quella catena di solidarietà che poteva rovesciare il destino (individuale e collettivo) di solitudine, repressione, desolazione, illibertà. Per questo era tanto più grave, per lui, sentirsi inascoltato. È vero che certe volte, mentre parlava, divagava, si infervorava, pareva di avere di fronte una figura alla Bouvarde Pécuchet, preda di una di quelle fissazioni che prendono spesso chi sente di avere qualcosa di grande e di irrimediabilmente finito alle spalle, avverte la sensazione di dover ricostruire tutto, ha tanto tempo libero davanti. Ma non c'era nulla, in quella fissazione, che non fosse innocente, innocuo. Eppure il suo 66 delirio - il delirio che, qualunque cosa sia successa in quella notte di luglio, lo porterà alla morte - cominciava da lì. Era un delirio mite: se c'è qualcosa di inspiegabile, di incomprensibile e anche di incredibile nell'ultima notte di Roberto, è quell'ascia brandita contro i poliziotti. Non solo perché giustifica provvidenzialmente un gesto che non avrebbe davvero attenuanti (l'uccisione di un uomo in evidente stato confusion<!le, colpevole solo di aver gettato immondizia contro la villa del Papa). Ma anche perché non c'era nulla di aggressivo nel delirio di Roberto. Mai, neppure nei momenti in cui più si infervorava e raccontava un altro nodo cui era giunto, un'altra traccia della repressione contro gli istinti naturali e la naturale libertà dell 'uomo, mai Roberto manifestava intenzioni aggressive o violente. Anzi, la radicalità dello smascheramento che gli sembrava di operare lo rendeva cosmicamente distante da ogni simpatia per la violenza politica e il terrorismo. Gli sembravano, nel migliore dei casi, sforzi illusori e fuori bersaglio, manifestazioni di un'incapacità di uscire dalla norma del sistema, di rovesciarne i totem e i tabù. Così, chiunque abbia in questi anni ascoltato Roberto, non può che riconoscerlo nel gesto, più irridente che violento, di gettare immondizia contro il Papa; mentre non può in alcun modo riconoscerlo nella furia dell'ascia brandita come un'arma. È per questo motivo sostanziale, oltre che per le solite infinite lacune e contraddizioni della ricostruzione ufficiale, che non riesco a credere alla versione che ho letto sui giornali. È vero però che c'è una continuità tra le idee di Roberto, tra il sistema di l?ensiero che con gli anni si era costruito, e la sua tragica fine. E una continuità che agli amici appare inquietante e un po' misteriosa. Perché Roberto con più fervore si indignava, con più durezza conduceva la sua battaglia ideale proprio contro le istituzioni che nella sua ultima notte incontrerà: Stato e Chiesa, Legge e Religione. Giacché questo era il nodo per Roberto. "L'uomo è nato libero e ovunque è in catene": ma più che alle condizioni di vita, quelle catene gli sembravano dovute alla repressione degli istinti, operata in tempi antichi e immemorabili ma continuamente reinventata e ribadita da istituzioni, ideologie, religioni. Dal chiuso di un destino piccolo-borghese, di un'esistenza che sentiva angustamente delimitata, Roberto aspirava all'amore libero, alla naturalezza delle relazioni sociali, alla nudità dei sentimenti e dei corpi. Questa violenta contraddizione tra ideali e realtà non provocava in Roberto lacerazioni o esitazioni, ma piuttosto una polarizzazione esasperata, una irriducibilità, una tensione che dava luogo alternativamente ad esaltazioni e depressioni. Nulla di più lontano di quella spiegazione dell'"inspiegabile gesto" emersa dai giornali. (Non per cattiva fede, in questo caso, ma per fretta, pressapochismo, disattenzione). L'associazione fra la definizione di "studioso di Nietzsche" e l'ascia brandita contro i poliziotti non poteva che richiamare uno schema elementare: il mito del gesto esemplare, del superuomo, del giustiziere solitario. Mentre Roberto pensava, semmai, con l'ingenuità e l'approssimazione che a volte manifestava, a un superuomo di massa (di una piccola massa), a una comunità di eletti che per intelligenza e sensibilità si sottraesse al destino di men-
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