STORIE/SINIBALDI Tre "storie vere", tre problemi di identità, di ieri, oggi, l'altro ieri. LO CONOSCEVO BENE Marino Sinibaldi La notte del 23 iuglio 1986, Roberto Porfili caricò sulla sua auto una busta di rifiuti, fece qualche chilometro fino a Castelgandolfo, parcheggiò vicino alla villa del Papa, lanciò oltre il muro la busta gridando qualcosa. I poliziotti di guardia diedero l'allarme, la vecchia e malridotta auto di Roberto venne inseguita e poi intercettata da due volanti: partono colpi di mitra, l'auto si blocca dopo un testa-coda. Quello che è successo poi, forse, non lo sapremo mai: sembra che Roberto brandisse un'ascia, sembra che per l'ennesima volta un poliziotto sia scivolato. Qualcuno dei quattro poliziotti presenti sparò, Roberto cadde accanto alla sua macchina colpito alla testa e al collo. Roberto ("un pensionato dello Stato di 45 anni", scriveranno all'indomani i giornali) morì sul colpo. Conoscevo Roberto da divetsi anni. Lo conoscevo dagli anni della politica: lui era stato militante di un collettivo del pubblico impiego. Era una di quelle figure simpatiche e un po' straniate di alti funzionari - lavorando in un ministero, quello dei Beni Culturali, di recentissima costituzione, Roberto aveva fatto carriera molto velocemente - èhe mischiano entusiasmo e disagio, dando sempre l'impressione di sentirsi leggermente fuori posto, nelle stanze dove si svolgevano riunioni combattive e tonnentate. Sul suo posto di lavoro, proprio a causa dell'eccentricità di essere un alto funzionario estremista, Roberto viveva momenti difficili. Questo lo rendeva particolarmente combattivo. I suoi ex colleghi ricordano ancora che Roberto organizzò una sorta di "congiura dei boiardi" contro un .capo (un direttore generale, o qualcosa del genere) particolarmente autoritario, radunando funzionari insoddisfatti ma intimamente refrattari a ogni tipo di mobilitazione o impegno politico. Dev'essere stata, nel suo genere, una cosa abbastanza comica. Ferratissimo in leggi e regolamenti, era quello il terreno in cui Roberto si sentiva un po' più a suo agio. Così, in tutti quegli anni si diede molto da fare, acquistò - nel piccolo ambiente dei compagni del pubblico impiego - una sua personalissima popolarità. Poi mollò. Approfittando di una di quelle leggi parecchio generose dovute, credo, alla spregiudicatezza elettoralistica di Andreotti, Roberto riuscì ad andare in pensione giovanissimo. Era l'inizio del 1980, non aveva nemmeno 40 anni. Quella liberazione dal lavoro salariato, conseguita approfittando di una legge corporativa e "reazionaria", gli apparve una magnifica beffa: era entusiasta. Aveva un sogno che mise subito in pratica: comprare una casa in campagna, coltivare un po' di terra per rimpinguare la magra pensione, leggere e scrivere. Diceva che voleva studiare e pensare. Erano anni in cui sembrava che, alla dissoluzione dei gruppi e delle istanze collettive - anche quelle piccole e microscopiche già sopravvissute alle organizzazioni della sinistra rivoluzionaria - si potesse rispondere in un solo modo: imparando a star bene da soli, a difendere individualmente le proprie ragioni e la propria storia. Un'intera generazione si mise aripensare e ripensarsi. Per molti quella fase durò poco; fu qualcosa come una transizione soft vèrso il disimpegno. Per altri non è ancora finita, e chissà se mai finirà. Roberto visse questa fase come molti. Ma qui cominciava a pesare - a riemergere, dopo gli anni che avevano cancellato le differenze, che sembravano davvero averci resi "tutti uguali" - la storia di Roberto, la sua diversità. La vita di Roberto era fatta di brusche svolte. Mi hanno raccontato che da giovane era tranquillo e per nulla ribelle; un po' Solitario ma "normale", nel senso più ovvio e forse deteriore del termine: bravo negli studi, un impiego statale già a diciannove anni, alieno dalla politica e dall'impegno. Poi, proprio mentre stava per nascere la sua prima figlia, una crisi. Qualcosa si rompe; o meglio, qualcosa si apre: comincia a guardare il mondo con più curiosità e disponibilità, si avvicina alla politica, diventa, per dirla con una formula, "di sinistra". Tutto questo, mi hanno detto i familiari di Roberto, improvvisamente o quasi, a 26-27 anni. Ho fatto i conti: doveva essere il 1968. Per età, condizione di vita, esperienza, cultura, Roberto era estraneo a quella generazione. Era arrivato a incrociarne il percorso per una via del tutto personale, seguendo la propria sensibilità. Lo so, è successo a molti. Ma già allora, credo ci fosse qualcosa di particolare, nella situazione di Roberto, una sorta di isolamento e di diversità eccessivi. Quella particolarità che, poi, lo farà apparire sempre integrato a fatica, nelle discussioni e nelle iniziative collettive. Pesava poi un'insoddisfazione ulteriore, più nascosta ma decisiva: Roberto aveva una famiglia, ma non era completamente soddisfatto della sua situazione familiare. Fino alla morte è vissuto coi suoi; ma, benché amasse molto le sue due figlie, con un disagio che negli ultimi tempi era diventalo sempre più pesante. La svolta veramente brusca e definitiva arriva con quel pensionamento anticipato, con quella beffa che tanto inorgogliva Roberto. Realizza il suo sogno e va a vivere a Lanuvio, in una casa grande, con la terra e gli alberi da frutto; tutto voleva, però, meno che isolarsi. Di fatto - per la pigrizia di tutti, per la rottura di tutte le dimensioni collettive che si era compiuta in quel periodo - la fine dei rapporti di lavoro (che erano, come ovunque, rapporti politici e umani) e quel trasferimento in campagna lasciano Roberto da solo. Lontano da tutti, immerso nelle sue letture, Roberto accentua la sua diversità, le sue fissazioni e i suoi disagi. Si confronta sempre meno con gli alLri, con sempre maggiore fatica, secondo un linguaggio ed esperienze sempre più uniche e personali. E qui bisogna parlare della sua "pazzia". Giacché chiunque ricordi le notizie sui quotidiani nei giorni della morte di Roberto, si chiederà: era davvero pazzo? e "come" lo era, di cosa, rer cosa? E difficile rispondere; è una storia difficile da raccontare. Bisogna cercare di non schematizzare troppo, eppure, per comunicarla, non si riesce a non semplificare. Roberto pensava che ben più che della politica bisognava occuparsi di altre cose: della costituzione psicologica e antro65
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