Linea d'ombra - anno VII - n. 35 - febbraio 1989

MODELLI SCIENTIFICIE POLITICA ono TESI Paolo Vineis 1) È largamente noto, e non richiede che ci si diffonda, l'argomento della recente filosofia della scienza (Hanson, Kuhn) secondo cui i fatti sono "gravidi di teoria". Per quanto non vi siano ormai più solide e convincenti obiezioni a questo argomento, forse non sono state tratte tutte le conseguenze che se ne potevano trarre. Si è più litigato sull'estremismo- in definitiva sciocco come quello popperiano - della formula di Feyerabend "tutto va bene" (nella metodologia scientifica) e non si sono invece tirate le fila di qualche decennio di critica alla neutralità della conoscenza scientifica. La pertinenza di questa prima tesi alla politica sta nel fatto che i modelli politici moderni, fino a quello del nostro secolo - il marxismo- prendevano la scienza a modello. Le analisi e leprescrizioni -etiche, comportamentali, di linea-derivavano al marxismo da una concezione scientifica del mondo. 2) Rispetto alla tradizione empiristico-positivista, messa in discussione dalla tesi dei fatti "gravidi di teoria", ve n'è un'altra che può essere definita "metaforica". È anzi riscontrabile uno scontro: filosofie della metafora / filosofie della verità, ( S. Borutti, "aut aut" 220-221, pp. 47 e segg. ,1987; da cui si riprende gran parte di questa seconda tesi). Le filosofie della verità, in un mo.do o nell'altro, hanno nel linguaggio descrittivo (univoco), e nel "nome proprio" (pertinente ali' essenza della cosa) il loro fulcro; la metafora è invece vista come nome improprio, "sostituito con un artificio lessicale" al nome proprio. L'univocità del rapporto nome-cosa e la possibilità di argomentare in favore della verità dei giudizi (come corrispondenza con stati di cose) sono consentiti dall'articolazione dei nomi in giudizi secondo il nesso soggetto-predicato. Secondo la Metafisica di Aristotele "non avere un solo significato equivale a non avere significato alcuno". Ma il nome nòn ha più un oggetto cui ancorarsi (tesi 1 ), l'univocità del linguaggio non è più garantita dalla base materiale (visto che un fatto è definito almeno in parte dalla teoria che gli sta a monte, dunque dal linguaggio stesso). Lo stesso soggetto, caposaldo del binomio soggetto-predicato, conosce una crisi come ordinatore delle esperienze. Solo per accenni (Kuhn, Hesse) la critica entro la scienza delle filosofie della verità approda all'altro versante - quello della metafora. Ma il passo sembra inevitabile: se non è univoco, il linguaggio sarà ambiguo; se non è descrittivo, sarà allusivo; se non è diretto sarà analogico. La metafora diventa allora non più nome improprio, ma "un piccolo testo" (Borutti), un modello condensato di realtà. Andare alla ricerca delle metafore nascoste entro le teorie "oggettive" della scienza è un 'impresa iniziata da poco, ma che pare fruttuosa (cfr. per esempio G. Holton, The advancement of science and its burdens, Cambridge University Press, 1986). 3) Ma che cosa significa assumere la metafora come la figura centrale del linguaggio - al posto dei "protocolli" positivisti, con le loro misteriose "regole di traduzione" dal livello della teoria a quello della realtà? Significa essenzialmente accettare che nel parlare "della realtà" si introduca inevitabilmente un criterio di rilevanza (l'analogia fondamentale su cui la metafora si regge) (su questo aspetto è basato il libro di N. Goodman, Ways ofworldmaking, Hassocks, 1978). Significa anche che una proposizione descrittiva contiene al suo interno un giudizio di valore. Già nel linguaggio quotidiano frasi apparentemente descrittive includono un giudizio normativo ("hai la cravatta sporca"; cfr. H. Putnam, Ragione, verità e storia, Il Saggiatore, 1985). Nel linguaggio scientifico il rapporto tra giudizio di valore e teoria dei fenomeni è più sottile; esso passa attraverso la determinazione sociale della ricerca scientifica (l'influenza di stimolo e di vincolo, esercitata dalla comunità scientifica sul singolo scienziato) ma anche attraverso la personale formazione del ricercatore (un esempio famoso: i rapporti di Niels Bohr con la filosofia di Kierkegaard). Gargani, in particolare, ha analizzato le relazioni tra i principi etici, la formulazione di rappresentazioni perspicue intese come un "dirigere l'attenzione" del ricercatore verso specifiche ipotesi, e la struttura delle teorie (A. Gargani, Lo stupore e il caso, Laterza, 1985). 4) Da quanto precede e, in particolare, dall'assenza di un radicamento "oggettivo" per le teorie, possono derivare almeno tre atteggiamenti generali: a) un pluralismo estremo: è la tesi del "tutto va bene" di Feyerabend. Si tratta di una posizione circoscritta- come quella popperiana - al piano delle prescrizioni metodologiche, delle "regole di buona condotta" nella scienza. Essa non cerca di individuare i legami col passato, di storicizzare le proprie origini, né si sforza di approfondire i legami tra specifiche formazioni economico-sociali e specifiche metodologie scientifiche. b) Un pluralismo debole, la filosofia ormai più in voga; essa non rinnega le proprie radici storiche, al contrario, riconoscendo la relatività spazio-temporale delle teorie, rivendica la legittimità (locale) di ciascuna di esse. c) Un totalitarismo della teoria. Venendo a mancare qualunque base materiale, oggettiva, della conoscenza, ogni metodologia è radicalmente sovradeterminata dall'ideologia dominante - quella propria della specifica formazione economico-sociale. Questa interpretazione porta necessariamente alla "autocontradditorietà performativa" evidenziata da Ape! (cfr. P. Pinzauti, Etica ed ordine sociale tra dilemmi e paradossi, "Metamorfosi", 4, 39- 76, 1987), secondo cui la critica al sistema diviene impossibile dal suo internò: come faccio se tutte le categorie etiche sono impregnate dell'ideologia dominante, a sviluppare una critica a tale ideologia? In altre parole, come posso pretendere di attaccare, con argomenti razionali, la razionalità dominante? 5) Non voglio qui neppure tentare di cercare una soluzione al conflitto tra pluralismo e totalitarismo- originante dal venir meno di una base oggettiva su cui fondare le teorie (politiche). Una soluzione del tutto provvisoria può essere quella, arcinota, dei giochi linguistici - ancorati alle "forme di vita" - di Wittgenstein. La corrispondenza tra giochi linguistici e forme di vita non può essere persa di vista (il pluralismo non può essere puramente metodologico) altrimenti non si capirebbe come le teorie originano, si selezionano, sopravvivono e muoiono. Il fatto stesso che le metafore che fondano le teorie implichino criteri di rilevanza pone il problema del modificarsi di questi criteri: perché ci si pone adesso - e non prima - la questione del degrado ambientale co59

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