Linea d'ombra - anno VII - n. 35 - febbraio 1989

Qui e a pag. 57 Edoardo Sanguineti fotografato da Giovanni Giovannetti. magini, sui livelli stilistici e su qualsiasi altro aspetto di un testo, facilitino la rottura di questa separatezza della letteratura che, secondo me, è assolutamente micidiale e ci ha riportato a un accademismo molto raffinato ma spesso inutile. Se è vero che il critico deve farsi storico, come mai allora in una sua poesia recente lei ha scritto "la storia, si capisce, non si capisce"? C'è forse una sfiducia nelle possibilità di quel metodo che ha appena terminato di indicare? Ascoltai questa affermazione in una trasmissione televisiva dalla voce ingenua di un ragazzo che, interrogato sullo studio, disse appunto che nella storia non c'era niente da capire e che bastava studiare le date, visto che a quelle tenevano i suoi professori. Ma detta con quella formula efficace, quella posizione mi apparve come una rivelazione e mi affrettai immediatamente a trascriverla, non già perché io condivida questa espressione, ma perché, in qualche modo, la presi come la voce inconscia e pressoché oracolare di un'epoca in cui nell'apparato scolastico si fonda una radicale incomprensione della storia, che poi è la stessa cosa che più raffinatamente si dice quando si afferma SAGGI/SANGUINOI l'insignificanza del divenire, magari attraverso tutto un apparato filosofico alla Severino, o si afferma che la società è complessa e a tale grado di complessità la decifrazione razionale ormai non giunge più. La poesia non sottoscrive tale posizione; è invece solo il grottesco apparente accoglimento di quella, ma come rivelazione della verità della ideologia dominante. In un suo recente intervento lei ha affermato che la critica letteraria dovrebbe tradursi-in una sorta di "onirocritica sociale e pratica", indicando quindi la necessità di comprendere non solo i meccanismi storico-sociali, ma anche le strutture inconscie e immaginative che stanno dietro a un testo. È così? Secondo me, il senso corretto di un testo è nell'azione sociale che esso determina, a livelli ora estremamente ristretti ed élitari ora estremamente ;illargati e di massa. Il significato fondamentale è quest'azione pratica, diciamo pure politj_ca,di un testo che è appunto un gesto politico. Ciò evidentemente non va pensato in senso partitico-settario, di tessera, di etichetta o altro. Il testo è un'azione pratica di singolare potenza perché le sue implicazioni inconscie sono fortissime; cioè i messaggi latenti della comunicazione letteraria, ed estetica in genere, le sue valenze allegoriche, nel senso etimologico della parola, sono enormi. L'azione di un testo sull'inconscio finisce per essere assolutamente decisiva e spesso, almeno nella ricezione attuale, nettamente dominante rispetto a quello che è il messaggio esplicito. Decifrare la portata pratica di questi messaggi credo che sia il compito dello storico; se voglio capire per esempio Catullo, devo capire la funzione pratico-politica di quei testi a livello più di antropologia storica che non strettamente di cronaca della società romana del!' epoca. Ma accentrando l'attenzione sulla ricollocazione storica e sulla ridefinizione delle valenze pratico-inconsce un testo, non c'è il rischio di escludere il problema del giudizio di valore che resta uno dei nodi centrali della critica letteraria? Io credo che una posizione come quella che ho appena esposto debba partire dal!' idea che il valore è esso stesso un dato storico; è un gesto pratico che nel tempo subisce motivazioni e argomentazioni, oltre che flussi di riconoscimento enormi. I diversi giudizi che si danno di un testo aprono un conflitto pratico; discutendo di queste cose si discute sempre dei massimi sistemi. L'adesione a un testo, la sua valorizzazione, il considerarlo sintomatico di questo o di quello, è un problema che appartiene allo stesso ordine di tutti i gesti di analisi storica, perché lo studioso è impegnato a dare una valutazione e, naturalmente, non fa una mera descrizione del testo. Il mio modo di descrivere è sempre un giudizio di valore per la selezione e la proporzione che metto nelle cose; io posso non formulare il giudizio e non mettere le stellette come invece fa il critico cinematografico, posso fare un discorso che apparentemente non si pronuncia, ma in realtà è tutto, come nella selezione e organizzazione del discorso, una scelta di metodo, una scelta orientata su valori. Non esiste descrizione che non sia giudizio di valore. Più in generale, piaccia o non piaccia, Io storico è necessariamente un giudice, perché quella che sta facendo è, a sua volta, un'azione pratica. Inoltre, i criteri di valore sono essi stessi prodotti di conflitti sociali; l'este55

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