UNA POSTILLA SU MALE RADICALE E BANALITA• DEL MALE Cesare Pianciola Auschwitz costituisce un unicum? È noto come gli storici tedeschi Nolte, Hildebrand, Hillgruber attraverso i ferri del mestiere della comparazione e della causalità (in questo caso riferite da Gulag sovietico) tentino di riassorbire Auschwitz in un contesto che lo "normalizzi" e tolga di mezzo il nazismo come "mito negativo del male assoluto" liberando la coscienza tedesca da ossessivi sensi di colpa. Un giovane studioso (Ermanno Vitale, in "Teoria politica", 1988, n. 2, pp. 149-160) ha intelligentemente discusso la questione facendo un'accurata rassegna delle riflessioni di Jean Améry e di Primo Levj. Vitale rileva la "costante pendolarità di Levi e Améry fra unicità e comparabilità, fra eccezionalità e rapporto di continuità di Auschwitz con il resto della storia umana. Queste oscillazioni possono essere forse spiegate da due esigenze morali eguali e contrarie al tempo stesso: accreditare l'unicità forte del Lager significa non dimenticare quelle vittime, rifiutarsi di annegarle nel fiume della storia e dei suoi mille misfatti; tuttavia, affermare con forza che lo spirito animatore di Auschwitz non gli è peculiare ed è oggi tutt'altro che estinto-e che forse non si estinguerà mai, perché è presente, per fortuna spesso sopito, nel cuore dell'uomo - significa non abbassare la guardia, considerare che, se è accaduto, "può accadere di nuovo", come dice Primo Levi. Ogni conclusione è per Vitale estremamente problematica: "La sfida di Nolte deve essere in certa misura accolta, se il prbblema viene posto non nella prospettiva della 'colpa tedesca', ma in quella più ampia della civiltà occidentale. Comparare non serve a 'dimenticare', ma a meditare: eventi simili, se non eguali, ad Auschwitz sono già accaduti prima, e possono accadere di nuovo. Non è inserendo il Lager nella trama della storia, attraverso la comparazione e la ricerca delle ragioni, ma separandolo da tale trama, che si corre il rischio di obliare Auschwitz e.di ripetere quella esperienza. D'altro canto, sembra plausibile anche la tesi opposta, secondo la quale il Lager, quanto più venga paragonato ad altri eventi storici, tanto più apparirà 'normale', accettabile e spiegabile come semplice momento parossistico di una conditio humana storicamente (se non wietafisicamente) ineluttabile e, parimenti, quanto più sia ritenuto unico, eccezionale nella sua abiezione, tanto più rimarrà come imperituro monito alle generazioni future". Nei testi che abbiamo appena letto Enzensberger e H. Arendt si dibattono in questa antinomia. Ha ragione H. Arendt a temere che "un radicalismo apparente" sussuma molti elementi particolari sotto un denominatore comune in modo che l'evento venga privato della sua radicale novità e venga minimizzato come un caso fra gli altri - seppure estremo e rivelatore - nella perversa logica del dominio. Ha ragione Enzensberger a temere che proprio isolando la "soluzione finale" se ne perdano le connessioni con il presente e ancor più con il futuro ("non dobbiamo pensare soltanto ai nostri padri, ma anche .ai nostri fratelli e figli"). E colpisce sfavorevolmente il fatto che H. Arendt, trascinata dalla polemica, usi - proprio lei, che anche nelle speSAGGI/PIANCIOLA culazioni più astratte pensa sempre nel cono d'ombra dei crimini assoluti del totalitarismo - un termine così debole e neutro come "politica di spopolamento" (Entvolkerungspolitik). Il fatto è che entrambi accettano la sfida che Auschwitz pone al pensiero in quanto sfono di comprensione, e tengono ferma la eccedenza qualitativa dell'evento rispetto ai più o meno plausibili tentativi di spiegazione messi in atto (comprese le numerose derivazioni dalle analisi economicistiche del nazismo prodotte dalla Tena Internazionale, contro cui hanno giustamente protestato A. Rossi Doria e C. Pavone sul "Manifesto" del 23.11.88: tra queste metterei anche la considerazione dei crimini nazisti come "prime manifestazioni delle forze di annientamento che la legge dell'economia capitalistica cuoce necessariamente nella sua pentola" di Cristoph Ttircke, pur condividendone l'intenzione non di storicizzare ma di attualizzare ). H. M. Enzensberger e H. Arendt battono il capo contro le inevitabili antinomie e le intime contraddizioni - la generalizzazione vuota del concetto e l'individualizzazione cieca del fatto - che sembra far naufragare la comprensione storico-politica di fronte al "Male estremo" (Améry). E ciò proprio quando, in forza della sua mostruosa eccedenza, l'urgenza della comprensione, e dunque del controllo razionale in vista del futuro, è sentito dalla coscienza come un imperativo etico indilazionabile. Comprensione - aveva detto H. Arcndt in Comprensione e politica (ora in La disobbedienza civile e altri saggi, Giuffré 1985) - è un'attività ermeneutica incessante attraverso cui l'individuo si inserisce in un mondo comune e condiviso di significati, e acquisisce l'abitudine a sussumere il particolare sotto una regola universale, senza la quale secondo Kant c'è !'"ottusità" come "malattia senza rimedio". Ma i fenomeni "che non possono più essere compresi in termini di senso comune e che sfidano tutte le regole del giudizio 'normale', cioè principalmente il giudizio utilitario, sono solo gli esempi più spettacolari della perdita di questa saggezza che è la nostra comune eredità". "Se è vero che siamo posti di fronte a una realtà che ha distrutto le nostre categorie di pensiero e i nostri criteri di giudizio, il compito della comprensione non è diventato disperato?". Di fronte al "Male estremo" sembra non rimanere in Améry che l'esibizione del corpo martoriato. "Dal mio intimo vorrebbe rabbiosamente prorompere solo un 'ascolta mondo'. Lo esige il numero a sei cifre sul mio avambraccio. Lo esige il senso di catastrofe che domina la mia esistenza" (Intellettuale e Auschwitz, p. 160). Il "Male estremo" sembra distruggere la possibilità di comunicazione razionale.L'esperienza della catastrofe inibisce l' agire comunicativo e brucia lo spazio dell'interazione politica. Eppure, dice.H. Arendt, coloro che "si sono alla fine resi conto, tremanti di paura, di che cosa sia capace l'uomo" hanno anche capito che tale éonsapevolezza è "il presupposto indispensabile del pensiero politico moderno" (Ebraismo e modernità, p. 76). Sul pensiero della catastrofe non si può fondare una politica positiva: è paralizzante come la vista della Medusa o conduce ad azioni disperate, etero o autodistruttive. Ma insieme: senza la catastrofe come orizzonte di pensiero la riflessione politica perde la necessaria profondità e diventa colpevole fuga dalla responsabilità storica. Nello scambio di lettere i due in45
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