SAGGI/ ARENDT ENZ:ENSBERGER ze". Questa frase non va tanto per il sottile né con la giustizia né con la logica. È moralmente inconciliabile con tutto ciò che ho scritto e non ha un senso logico. L'estrema conseguenza dello sviluppo degli ordigni nucleari sarebbe la distruzione della vita sulla terra. Nessuno dovrebbe rispondere, a chi constata questo dato di fatto, che bisognerebbe essere grati se finalmente qualcuno ha tratto le conseguenze. Non per caso scelgo questo paragone. Infatti, se rifletto sulla storia che precede Auschwitz - e sia pure con i mezzi inadeguati di un uomo che non è né antropologo né storico - lo faccio in considerazione del suo futuro. Sarebbe escapismo, ai miei occhi, comportarsi come se tutto ciò fosse acqua passata, com.ese fosse qualcosa che è semplicemente trascorso e caduto in prescrizione, operazione a cui proprio in Germania si tende. Solo dei deficienti possono mettere in dubbio che spetta ai tedeschi, e a loro soltanto, la responsabilità della "soluzione finale"; nel caso, però, che il mio libro debba essere letto da deficienti, ho ripetuto tre volte espressamente, e senza possibilità di equivoci, ciò che è chiaro come la luce del sole. Noi non dobbiamo, tuttavia, pensare soltanto ai nostri padri, ma anche ai nostri fratelli e figli; non soltanto alla colpa di coloro che sono più anziani di noi, ma anche - anzi soprattutto - alla colpa che noi stessi ci addossiamo. Per questo affermo: "La pianificazione della soluzione finale di domani avviene sotto gli occhi di tutti", e: "nel 1964 ci sono soltanto persone che ne sono a conoscenza". Se questa è la salsa dell'universale, non è certo una mia invenzione, e l'elemento specifico che rischia di perdervisi, siamo proprio noi. Da ogni schermo televisivo risuona oggi l'espressione "ecatombe nucleare" (2). Non è assolutamente migliore del termine "trattamento speciale". "I posteri, occupati nei preparativi della propria 'soluzione finale', cer: cano oggi di condannare i responsabili è i complici di quella hitleriana. Vi è in ciò una mancanza di coerenza. Questa incoerenza è la nostra unica speranza, una minuscola speranza". Su tale punto desidero insistere: "La 'soluzione finale' di ieri non è stata impedita. La soluzione finale di domani può essere impedita". Se è escapismo, rivendico allora questo titolo. Mi consenta infine, gentilmente, ancora un'osservazione sulla Sua frase: "Se a scriverlo è un tedesco, desta preoccupazione". Capisco questa frase e capisco perché Lei la scriva. Dalla Sua bocca l'accetto. Presa separatamente dalla persona, tuttavia, desta anch'essa preoccupazione; afferma, infatti, che la giustezza di un giudizio dipende dalla nazionalità di colui che lo pronuncia. Spesso mi sono trovato di fronte a questo argumentum ad nationem. Ho incontrato cittadini dell'Unione Sovietica che controbattevano qualsiasi osservazione critica sulle condizioni del loro paese, additando l'aggressione tedesca del 1941. Anche questa reazione è comprensibile. Non riguarda, ovviamente, il dialogo in sé, bensì le sue premesse. Senza un minimo di fiducia qualsiasi dialogo è impossibile. La fiducia, tuttavia, è qualcosa che può soltanto essere concessa. Questo argumentum ad nationem revoca una simile concessione e trasforma il dialogo a due in monologo; come può interloquire, infatti, una persona le cui parole si perdono ogni volta nella sua origine? Tutto ciò che egli afferma si trasforma in semplice appendice del42 In alto: l'esplosione di Bikini nel 1946 (Arch. Garzanti). In basso: la città di Dresda dopo il bombardamento del febbraio '45. la sua nazionalità: potrebbe parlare soltanto come "rappresentante" di un collettivo e non più come persona; sarebbe unicamente portavoce di qualcosa e, come ogni strumento portavoce, egli stesso muto, afono. Perciò ritengo che una frase non possa diventare più preoccupante di quanto di per sé già non sia, per essere stata scritta da un tedesco, un comunista, un negro ecc. È preoccupante, oppure non lo è. Ed egualmente - mi perdoni, non mi è possibile altrimenti - l'aspetto più grave dei misfatti dei tedeschi non è per me il fatto che a perpetrarli siano stati i tedeschi, quanto piuttosto che simili misfatti siano stati in assoluto perpetrati e che possano nuovamente esserlo. Spero ardentemente che Lei mi capirà. Sui tedeschi e sui tedeschi soltanto ricade la colpa di Auschwitz. L'uomo è capace di tutto. Ambedue le frasi sono indispensabili, e nessuna può sostituire l'altra. Non cerchi in me scappatoie, giustificazioni, scuse. Ciò che mi sta a cuore non è un libro, e so bene che non vi è parola che possa avere ragione di fronte alla parola Auschwitz. Che Lei mi dia torto, è qualcosa cui sono preparato, spero soltanto che non mi farà torto. Suo sempre devotissimo Hans Magnus Enzensberger HANNAH ARENDT New York, 30 gennaio 1965 Caro signor Enzensberger, mi fa piacere che Lei abbia risposto alle mie righe, buttate giù un po' alla leggera, e che, in tal modo, si sia iniziato il dialogo. Mi consenta di dire, dapprima, che non era mia intenzione attaccare, bensì comunicare delle riserve. Un atteggiamento di ostilità non mi è affalto passato per la mente, e il "minimo di fiducia", di cui Lei a buon diritto parla, l'ho dato per scontato. Nulla mi è più estraneo del farLe torto o del gettarLa in un unico calderone con gli altri; non poteva, infalti, trattarsi certo di qualcosa di diverso. Ha fatto bene a rimproverarmi l'argumentum ad nationem. Nell'accezione così sintetica in cui l'ho applicato non è naturalmente sostenibile neppure per un attimo. La questione, tuttavia, non è neanche così semplice come Lei la presenta. Sarei disposta a sottoscrivere la Sua frase, rivolta ai deficienti: "La 'soluzione finale' di ieri è stata opera di una sola nazione, di quella tedesca", ma non senza darne una spiegazione. Si è trattato, come Lei stesso scrive, della" 'soluzione finale' hitleriana", di cui si è resa corresponsabile una parte purtroppo molto grande del popolo tedesco, e nessuno dei colpevoli ha mai pensato, neanche per sogno, di rivendicare questo piano "grandìoso" o di portarne in seguito le conseguenze. Con ciò intendo dire che non doveva per forza succedere e che sarebbe potuto succedere anche altrove, benché non ovunque; e, infine, che non deve essere spiegato in base alla storia tedesca nel senso
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