IL CONTESTO Pascoliana Rocco Carbone Pascoli e la critica, in alcuni saggi recenti. E in quello di un outsider, come Garboli. Più si studia Pascoli, e più ci si accorge di come i suoi scritti, fenomenizzatinelle uscite a stampa, dicano poco rispetto alla consistenza per così dire infieri, genetica dei manoscritti. La filologia pascoliaria non vanta grandi tradizioni. È nata da poco, e dato pochi frutti: l'edizione critica, attualmente, di una sola opera (Myricae, curatadaNava); un'altra in corso di preparazione da tempo immemorabile (i Canti di Caste/vecchio per le cure di Nadia Ebani); le recenti ricerche di Garbo li e Pèrugi; le incursioni filologiche sul Pascoli latino di Traina; poco altro ancora. Le ultime novità in campo pascoliano ci vengono offerte da due libri editi dall'Accademia Pascoliana diretta daMario Pazzaglianclla inaugurata collana dei "Quaderni di S. Mauro". Il primo ci fornisce gli Atli del convegno del 1987 (Testi ed esegesi pascoliana), il secondo la prima sezione di un lungo viaggio filologico di Guido Capovilla sui manoscritti e i testi relativi agli anni bolognesi dello scrittore (La formazione letteraria del Pascoli a Bologna). E in effetti, ciò che colpisce il lettore è la predominanza filologica che in entrambi i casi prevale su altre possibili letture. Oggi come oggi, la tradizione critica pascoliana vanta numerose letture. Pascoli-come è giusto che sia-è stato studiato in vario modo, da più punti di vista. Ma tutta o quasi la critica pascoliana non ha mai affrontato il problema che via via, nella lettura, sempre appare: un dilemma, ripeto, di natura filologica. Ciò non è di poco conto: il nostro modo di leggere l'autore dei Poemetti è fondato su una tradizione che ha quasi sempre scavalcato, apié pari, il purgatorio della massa impressionante di materiali inediti, posti alla base delle edizioni a stampa di tutte le sue opere, nessuna esclusa. Si può dire, certo, che una simile esigenza non sia un privilegio del tutto speciale di cui godrebbe solo e unicamente l'opera pascoliana. Ma le cose non stanno a questo modo. Ci ~onoscrittori che per la stessa natura della loro opera, e per le modalità attraverso cui essa si realizza, necessitano di un ulteriore approfondimento della dimensione genetica di questa stessa. Alcurù scrittori, per i quali lo studio filologico diventa tutt'uno con la comprensione del sistema espressivo e concettuale emergente dalla loro ricerca letteraria. Certe opere, per lo studio delle quali la filologia non è solo un'opzione metodologica, da porre esattamente sullo stesso piano di altre (Pascoli non è D' Artnunzio, in tutti i sensi). Mi accorgo di aver usato la parola sistema. È una parola rischiosa, nel caso pascoliano. Certo, per Pascoli la letteratura, e la sua letteratura, sono un sistema. Lo sappiano da numerose notazioni, e dal carattere stesso del suo lavoro stilistico; da tante altre cose ancora. Ma è altrettanto vero che le caratteristiche più attive della sua poesia si manifestano meglio, e più concretamente, nei momenti di pausa e contraddizione del sistema stesso, nel singolo punto o testo, verso o sintagma, i quali, nel momento stesso in cui fanno parte di una dimcnsiòne progettuale decisamente più ampia di loro vogliono sconfessare perentoriamente questa appartenenza, questo debito. Basta il minimo episodio, la più piccola spinta eccentrica a gettare luce diversa (a volte completamente diversa) su quahto, a mano a mano, si era costruito, poco per volta, faticosamente. Con una pazienza da certosino. C'è, nella letteratura pascoliana, un rapporto peculiare tra singolo elemento e grande organizzazione, tra testo e macrotesto.11 sistema esiste, insomma, qualora lo si possa sconfessare, e Pascoli, quando fa questo, non prova nessun rimorso. Poi, esistono anche i tempi, è vero. Un sistema può variare considerevolmente da periodo a periodo, e da opera a opera. Ma è proprio questa sua continua labilità che rende possibile riconoscere nella letteratura dello scrittore quegli clementi rimasti immutati a distanza di tanti anni, e di una decina di libri. È proprio il singolare percorso adottato dall'autore, la costruzione di una architettura che, più cresce e aumenta, più assume dimensioni diverse, bizzarre, irragionevoli (come un disegno di Escher). Non bisogna lasciarsi ingannare da questa 34 illusione ottica che ci fa vedere un insieme ordinato, una casa dove tutto, ogni cosa e suppellettile è a posto: più si dimora, in questa casa, e più gli oggetti sono numerosi, e cambiano di posizione; e i cassetti e gli armadi sono pieni di roba in disordine. In Pascoli c'è qualcosa di mostruoso, che si manifesta ncll 'ossessione con cui vengono costruiti, punto per punto, certi suoi libri. Il tempo impiegato, in questo senso, muta di valore, va letto diversamente. I rimandi da un punto all'altro (a volte lontanissimi) del sistema fanno sì che la diacronia, da un lato, testimoni frequentaementc della ripetizione di qualcosa dall'inizio alla fine, di una immobilità, appunto, ossessiva, e la sincrorùa, dal canto suo, certifichi la continua labilità del sistema e degli clementi ricorrenti e stabili, che cambiano di valore perché non stanno mai fermi, creano disordine, nuovo ordine, disordine ancora. Gli Atli del convegno di San Mauro testimoniano, già ad un primo sguardo, esigenze e tensioni di carattere filologico. Fin dall'intervento introduttivo di Bàrberi Squarotti, che fa il punto sull'attuale situazione della critica pascoliana, per giungere via via ai numerosi interventi che compongono il volume, ognuno dei quali centrato su particolari aspetti della letteratura dello scrittore. È il caso del saggio di Guido Guglielmi sul dantismo pascoliano, tutto intento a dimostrare la particolarità di un sistema letterario, e l'evenienza allegorica come raffigurazione concreta, appunto di tale complessità; come anche delle puntuali letture di Giuseppe Leonclli e Mario Pazzaglia, e di quest'ultimo in particolare! 'intervento sul Ritorno a SanM auro, accolto in quanto "rivisitazione dell'infanzia come memoria sofferta del primo fondamentale scacco"; o ancora della ricostruzione filologico-testuale di Nava (Temi fitomorjici nella poesia del Pascoli), che identifica infine nelle metafore botaniche l'emblema conclusivo dcli' "io non sono potuto crescere"; e così via. Il lavoro di Capovilla sulla formazione letteraria del Pascoli a Bologna, secondo volume dei "Quaderni di San Mauro", ha molti meriti. Primo fra tutti quello di esplorare un periodo di produzione pascoliana- il primissimo - tra i meno studiati, o tra i più fraintesi. Strana l'attenzione che la critica ha rivolto a questo autore: mentre per altri, a lui più o meno coevi, si è assistito ai più accaniti sondaggi sulla loro fase di formazione, di elaborazione degli elementi ictterari più avanti assai attivi, nel caso di Pascoli è stato steso, fin dai primi suoi editori postumi (primo fra tutti Vicinelli - il cui lavoro è pure stato fondamentale - coadiuvato da Mariù), una sorta di velo, attraverso il quale il lettore può vedere o scorgere solo ciò che da altre mani gli è dato di osservare. È il caso delle cosiddette "carte Schinetti", fondamentali per buona parte della letteratura pascoliana, soggette fin dalla loro prima pubblicazione (ali' indomani della morte del poeta, ad opera appunto di Pio Schinctti, su un numero dc "Il secolo XX"), a un'evidente manomissione. Il quadro che emerge dai due libri è insomma articolato, e piuttosto mosso. Dall 'insicme, si ha come J 'impressjone che la critica pascoliana abbia individuato quale è la strada oggi da percorrere, e a partire da ciò cerchi, con i modi e i metodi tipici di ogni singolo studioso, di mettere le sue carte in regola; di presentarsi, insomma, ben allenata ai blocchi di par\enza. Una curiosità. Sfogliando il volume degli At1i, ho fatto una piccola classifica degli studiosi più citati (non esiste un indice dei nomi). Alla fine, constato che quello forse meno citato, tra i più citabili, è Cesare Garboli. La cosa mi sembra piuttosto singolare, anche se involontaria. Che Garboli sia un oùtsider nell'attuale critica pascoliana è un fatto così conclamato da essere né più né meno di un luogo comune, che serve a poco o nulla. Se dovessi continuare la metafora podistica, direi che ci troviamo di fronte a una sorta di Abebe Bikila della letteratura, uno di quegli atleti che fanno corsa a sé, giungendo in solitudine al traguardo, senza bisogno di voltarsi indietro per vedere dove sono i suoi avversari. Il libro mondadoriano delle Poesie Famigliari curato da Garboli non lascia adito a dubbi sul fatto che l'attenzione dello studioso si realizzi in
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