Linea d'ombra - anno VII - n. 35 - febbraio 1989

dribblava le barriere del tempo e cristallizzava una prossimità insperata e in certo modo illogica: pòrta dalla sua prosa galante sembrava naturale come un incontro auna festa mascherata. Mi piace pensare che proprio questo suo ostinato coniugare il sapere con il gioco della vita abbia contribuito a renderlo incompatibile con le strutture e il galateo accademici. Nelle poche righe di biografia che accompagnano l'ultimo suo libro pubblicato (Lettura del Don Giovanni di Mozart, Einaudi) compare un'annotazione che non nasconde una certa fierezza: "Bocciato nel concorso nazionale per titoli ad una cattedra ordinaria". E in effetti lui insegnò per più di un decennio all'Università di Torino, ma sempre da precario, comunque da "irregolare". Questo mi fa ricordare il commento di un qualche accademico tedesco al fallito tentativo di Walter Benjamin di arrivare a una cattedra: "malauguratamente l'intelligenza non è un titolo con cui si vincono i concorsi universitari". Aggiungo che spesso mi è successo di sentire attribuiti a Mila svarioni clamorosi, mirabili strafalcioni di analisi armonica e imperdonabili sviste. Non sono mai andato a controllare ma son sicuro che era tutto vero. Ed è una delle ragioni per cui l'ho ammirato con una simpatia tutta particolare. Tanto per restare in campo musicale, la Callas calava negli acuti, Rubinstein suonava una valanga di note false: ma io non ho mai sentito cantare così bene Verdi e suonare così bene Chopin. L'errore è imperdonabile solo per imediocri.Nei grandi è una specie di ironia acrobatica. Mila, a modo suo, era un grande. Quel che mi riesce più difficile difendere in lui sono le prese di posizione assunte spesso come critico. Almeno negli anni in cui l'ho letto io, cioè gli ultimi, sfoggiava una benevolenza indiscriminata, a volte perfino fastidiosa. Un giorno, intervistandolo, gli chiesi com'è che non stroncava mai nessuno: mi disse che ormai, dopo tanti anni, sapeva già cosa e chi non gli piaceva, e quindi nemmeno ci andava a quei concerti. Era una risposta astuta, ma c'era qualcosa di vero. Quando mi toccò fare il critico sul quotidiano torinese concorrente al suo, capitai a un concerto in cui un complesso cittadino offrì un'esecuzione baçhiana scandalosa. Poiché non avevo ancora ben capito le regole del gioco, il giorno dopo scrissi con candore che il concerto era stato scandaloso: fui seppellito da proteste e sdegno. Lui, Mila, molto più semplicemente si era defilato durante l'intervallo: e non scrisse una riga. Con tutto ciò continuo a pen-· sare con disappunto alla sua accondiscendenza di critico.Nell'ambiente, perché nasconderlo?, si tendeva a parlare delle sue recensioni, negli ultimi anni, con un certo sorrisino di benevola compassione: un po' come certi melomani che dopo aver idolatrato per anni il tal tenore pensano di certificare la loro devozione denunciando per primi le avvisaglie del suo definitivo declino. A me, francamente, è parso di riconoscere nei suoi articoli, fino all'ultimo, i segni di una lucidità assoluta e di una vigile intelligenza. Se c'era un nesso, fra la sua vecchiaia e ciò che scriveva, era forse proprio in quel suo mettersi al di sopra delle parti, concedendosi il privilegio di una nobile benevolenza. Certo mi sarebbe più piaciuto se avesse approfittato della sua età e della sua fama per mandare al diavolo la benevolenza e dire ciò che tutti quelli più giovani o meno intoccabili di lui non possono a dire, a meno che non vogliano rapidamente cambiar mestiere. Di lui come uomo non avrei da raccontare che cose assai più insignificanti di quelle testimoniate da chi gli ha vissuto o lavorato accanto. Solo una ne vorrei annotare: perché il buffo pudore che aureola i morti l'ha ricacciata nel silenzio al momento dei ricordi e delle commemorazioni. Dopo la morte della moglie, passò gli ultimi anni con una donna che volle anche sposare: una donna molto più giovane di lui e, TEATRO IL CONTESTO a leggere quel che scrive, intelligente. A lei dedicò il suo ultimo libro, con una frase semplice che però, analogamente a quella sulle bocciature accademiche, ha una sua bella fierezza: "Alla mia Anna". lo non so nulla di questa storia, l'unico indizio è una chiosa che Mila scrisse da qualche parte a proposito della passione, maturata negli ultimi anni, per la musica di Dufay: "un amore senile, e perciò dolcissimo". Nonne so nulla, dico. Però, vista da lontano, mi è sempre sembrata una cosa bella, e spesso mi ha colpito. Mi ha lasciato l'immagine di un uomo capace di estorcere alla vita ancora sempre qualcosa di più. Per falsa che possa essere è l'immagine che mi terrò di lui. La lingua della montagna secondo Pinter Maggie Rose L'ultimo lavoro teatrale di Harold Pinter, Mountain Language (La lingua della montagna)- scritto nel 1987 e attualmente in scena al National Theatre per la regia dello stesso Pinter - è al centro di una viva polemica fra i critici. Questo dramma segna infatti una svolta decisiva nella produzione pinteriana in quanto Pinter, attraverso numerose interviste e lettere alla stampa, lo ha presentato in chiave esplicitamente politica. L'Harold Pinter di una volta, riluttante a rilasciare dichiarazioni, è ora diventato loquace e non disdegna di fornire spiegazioni sulla propria produzione teatrale. Sembra che questo cinquantottenne stia vivendo il suo momento di grande impegno politico, trent'anni dopo quello dei suoi coetanei Wesker e Osborne. Ora che questi ultimi non parlano più di politica, è invece Pinter che pensa a colmare i silenzi. La lingua della montagna rappresenta le atroci condizioni di un carcere dove i prigionieri non solo vengono maltrattati dai custodi ma sono anche privati del loro idioma, cioè della lingua della montagna. La violenza si allarga alle donne in visita ai detenuti, che devono trascorrere intere giornate nella neve prima di riuscire a entrare, talvolta assalite a morsi da cani feroci. Sono scene- a prima vista- di crudo realismo, che potrebbero rispecchiare la condizione carceraria d'un paese governato da un regime dittatoriale. Alla luce dei suoi ultimi dramm'i, La lingua della montagna e Il bicchiere della staffa ( One for the Road, 1984), la maggior parte della critica inglese sostiene che Pinter è diventato un drammaturgo politico tout court. Ed è stato lo stesso Pinter a suggerire questa nuova concezione, rinnegando la precedente lettura dei suoi testi. Per quanto riguarda La lingua della montagna, il critico teatrale del "Sunday Times", nelle cui pagine è stato di recente pubblicato il testo originale, aveva preannunciato il dramma .. come una parabola sulla sorte dei curdi in Turchia, interpretazione che è stata però categoricamente negata dal drammaturgo. Secondo Pinter, il suo lavoro "non allude alla condizione dei curdi" e non è "una parabola". Egli fa notare che gli elementi politici si riferiscono a un qualunque regime poliziesco, mentre i riferimenti sociali e culturali del testo sono inglesi. Da un lato, Mountain Language è radicato - come quasi sempre nel teatro di Pinter - in un terreno specifico: vari elementi indicano l'Inghilterra odierna - i riferimenti a Lady Muck e al Babycham ( che non sono affatto resi nella traduzione italiana) alludono a quelle signore inglesi che si vestono e si truccano in modo appariscente per apparire ciò che non sono, e bevono immancabilmente Babycham - vino spumante scadente, la bevanda dei poveri; che è pubblicizzato come se fosse chllll)- pagne. · Dall'altro lato, va detto che Pinter ha effettuato un processo di stilizzazione estrema. Ha voluto svelare lo stato delle cose quando la lingua della montagna è proibita: il titolo MountainLanguage (suggerirei di renderlo in italiano con La lingua della montagna - e non con JJ linguaggio della montagna come è stato fatto nella traduzione di Laura del Bono e Elio Nissin, perché faperdere la metafora originale; anche Lingua montanara, come è stato suggerito da Almansi su "La Repubblica", manca delle valenze mitiche e ha connotati piuttosto spregiativi) sta a testimoniare un'assenza: né questo popolo né la sua lingua hanno più diritto di esistere. Non esiste più, fra i prigionieri, costretti a parlare la lingua della capitale, l'uso di quel ricco bagaglio di colloquialismi e modi di dire che caratterizzano il primo teatro pinteriano. Rimangono poche allusioni allo specifico e in conseguenza troviamo figure prive dell'individualità e della creatività linguistica che fornisce la propria madre lingua. 31

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