Linea d'ombra - anno VII - n. 35 - febbraio 1989

IL CONTESTO le lettere dell'amica sotto la voce "Corrispondenza con Evelyn Scottprimo scrittored' America"). Non sospettando che quei "capricci personali" fossero invece una lacerazione profondadell 'essere, unaferitail cui dolore rendeva la Scott eccezionalmente sensibile alla realtà, le rendeva impossibile abbandonarsi davvero all'inerzia, alla passività e all'apatia che va protestando in tutto il racconto, mentre sono le parole stesse, la scrittura, a tradirla, a smentirla. Ogni immagine con cui la Scott ritrae la realtà della sua condizione e di quella dei compagni che la accompagnano o la sfiorano in questa "fuga" verso l'impossibile, sono vive ed essenziali e non lasciano tregua alla lettrice, che vi si specchia, o al lettore, che non può fare a meno di esserne coinvolto. MEMORIA MassimoMila, "Evelyn Scott scriveva piuttosto bene, per essere una donna," ha detto di lei Williatn Faulkner. E Vittorini, inAmericana: "Avuta giovanissima l'intrepida avventura di una fuga al Brasile con un uomo povero e marito di un'altra, ha lasciato un libro autobiografico ... Uno stile duro, freddo, sempre amaro d'istinto, che rimarrà un esempio di ardita forza". L'intrepida avventura non è certo la fuga di Evelyn in Brasile, è l'estenuante viaggio dentro di sé che non le permette di esprimersi altro che con quell'ardire. E queste due frasi campeggiano sulla copertina del libro, a esempio di come sia possibile stendere un velo di volontaria stupidità sulla propria capacità di percezione, davanti a un capolavoro, quando questo è scritto da una donna. • una miracolosachiarezza Alessandro Baricco Massimo Mila (Arch. La Stampa) lo, Massimo Mila praticamente non l'ho mai conosciuto. Ciò ha del miracoloso: perché a Torino chiunque abbia a che fare con la musica èpassato prima opoi da Mila. "Passato" nel sènso che in qualche modo l'ha incrociato per il tempo sufficiente da potersi poi dire suo allievo. Tutti sono allievi di Mila, quassù. lo, almassimo, posso dire di averlo "sfiorato" alcune volte: ma una strana ritrosia del destino ha voluto che mai si attorcigliassero, le nostre strade, quel poco che sarebbe bastato per farmi scrivere di lui, oggi che è morto, come di un mio maestro. Sono uno che l'ha visto vivere poco e da lontano: spesso attraverso quella intima lonta30 nanza che è la lettura. Da !ontano ne scrivo ora, troppo tardi per un sacco di cose. Ci sono due cose, di lui, che non dimenticherò, e che riassumono. il nocciolo del suo insegnamento: la limpidezza della sua prosa e il riverbero di umanesimo che ha accompagnato i suoi studi. Mila scriveva chiaro. Come pochi altri. Tutti dicevano che era un dono. Nella mitologia spicciola che accompagnava la sua fama nonmancaval'immaginedi lui che alla "Stampa", di notte, subito dopo il concerto, si sedeva alla macchina da scrivere e in un quarto d'ora tirava giù le sue tre cartelle, regolando sintassi e idee con magica naturalezza. Ne useivano articoli che sembravano limati per ore. Non eredo, tuttavia, che fosse solo una questione di felice dominio della penna. C' eradell' altro. Quella miracolosa chiarezza era una lezione: stava lì a ricordare che il compito primo dell'intellettuale - ciò che riassume la sua funzione civile-è ricondurre cartesianamente a"idee chiare e distinte"!' infinito del pensabile e il caos del reale. A tale compito Mila non si sottrasse mai: probabilmente aiutato dal suo essere critico militante e non solo studioso puro: la prossimità al grande pubblico doveva in qualche modo renderlo più sensibile alla responsabilità civile del sapere. Certo si potrebbe obbiettare che le regioni del pensiero prevedono anse e picchi frequentabili solo a prezzo di un oscuramento del linguaggio e di un'evanescenza della rappresentazione. Neè facile liberarsi dal sospetto che qualsiasi chiarezza celi una qualche semplificazione. Gli stessi scritti di Mila, spesso, davano l'impressione di un "pensiero frenato", di una ricerca che si fermava là dove, a proseguire, si sarebbe rimesso la magia della limpidezza. Ma di questo gli si deve dare atto: lui spinse quella linea di frontiera - quel confine tra ciò che ancora.si può dominare con la rappresentazione e ciò che sfugge alla definizione compiuta- ben al di là di quanto altri abbiano saputo fare. Questa sua prodezza resta come una sorta di lascito etico prima ancora che intellettuale: sta lì a denunciare ogni gratuito narcisismo del pensiero e del sapere. Non estranea alla chiarezza della sua prosa era la sua consuetudine a concedersi gustosi incisi di ironia se non di schietto umorismo. Forse era anche un semplice vezzo. Ma suonava sempre un po' comeun'esortazioneanon prendere troppo sul serio ciò di cui si parlava, e cioè la musica. Come a ricordare che quel che davvero era importante non era lì: si specchiava lì, ma lì non era. In ciò diventa visibile quello che mi viene da chiamare il suo "umanesimo" di fondo. Se si vuole trovare una costante negli studi di Mila è lì che occorre cercarla: in quel suo ostinato, e a volte geniale, sforzo di riportare le parabole linguistiche della musica ali 'universo parallelo dell'avventura umana. Lui sapeva tradurre l'esoterico gergo dei suoni in collezioni di nomi dove riviveva l'emozione, comune a tutti, della vita. E se studiava qualcosa, quel che cercava era la complicità con la fatica e la bellezza, a tutti nota, del mestiere di vivere. In questo senso il suo libro più significativo resta Compagno Strawinsky. Ci s,ono alcune righe, nella breve pagina che lo introduce, in cui c'è tutto Mila, come in una fotografia: "Strawinsky fu con la sua musica un compagno di strada per l'uomo moderno, un Wegweiser, un fratello. Insomma, quello che con espressione ingombrante, probabilmente a lui invisa, si dice un maestro di vita. Ha insegnato un modo di es_istere e di resistere, senza piagnistei e senza iattanza, in questo nostro difficile mondo, che pure è il migliore dei mondi possibili per il semplice motivochenoncen'èun altro". Strawinskyera un quasi-contemporaneo: ma la stessa complicità Mila la cercava in autori lontani: nel modo più evidente in Mozart, ma anche in Verdi, in Mahler, perfino in Wagner. E lì il suo paziente lavoro diventava anche più miracoloso perché

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