Bruno Bettelheim in una foto di Jerry Bauer (Grazia Neri). - L'impossibilità, argomentata inmodo eccellente, di distinguere in linea di principio tra "atti di commissioni" e "atti di omissione", tra uccidere e lasciare che una persona muoia ove sia in nostro potere venirle in aiuto. - Una sorprendente lettura, in verità assai conseguente, della "clausola limitativa" di Locke (sul diritto di proprietà), clausola che per il suo estremismo potrebbe far impallidire i padri stessi del socialismo: si può far valere un diritto di proprietà su una certa cosa, solo a condizione che il possesso di essa noncomporti un peggioramentodella situazione di altri. Pensiamo, insieme all'autore, alle implicazioni "eversive" di tale clausola, per esempio riguardo al rapporto tra stati: un popolo sovrano ha il preciso dovere di soccorrere un altro popolo che non sia in grado di garantire ai suoi membri il diritto di sopravvivenza. Insomma, se sacrifico una parte delle mie risorse per il cittadino del Sahel, non faccio della carità cristiana, gratuita ancorché nobile, ma adempio un dovere "naturale". - L'obiezione che l'autore muove agli "emotivisti" (per i quali i giudizi etici sono solo espressione della "volontà", di stati d'.animo o desideri): in tale prospettiva infatti perché mai i giudizi etici dovrebbero soggiacere alle leggi della logica? Posso benissimo approvare una situazione e un attimo dopo disapprovarne una identica. O volere il fine e non i mezzi. E se anche due desideri, tra loro incompatibili, portano alla paralisi dell'azione, che male ci sarebbe nell'essere paralizzati? Interrogati vi né oziosi né sofistici, e che inducono a pensare che i giudizi etici forse hanno a che fare con una qualche oggettività o verità, e non solo con sensazioni soggettive. - Una critica assai convincente, anche se di semplice buon IL CONTISTO senso, al neocontrattualismo, da noi tanto in auge. È certamente vero che sono astrattamente concepibili regole di condotta tali che se ciascuno le osserva "egoisticamente" ci guadagna. Ma nel caso assai frequente di società in cui, ahinoi, il potere si trova già concentrato in un gruppo ristretto, in cui già esistono forti e deboli, non si vede perché mai i forti dovrebbero ritrovarsi insieme in un qualche contratto. Il fascino discreto della quantificazione Tutto questo va bene (ed è lungi dall'esaurire la ricchezza problematica del libro) e fa pensare a un"cuore vigile", a una sensibilità guidata da un ingegno e da una serietà oggi alquanto rari. Qualche volta però la fitta e laboriosa argomentazione di Pontara, ricca di esempi, obiezioni e controbiezioni, si allenta e cede a improvvise semplificazioni. J>eresempio di fronte alla obiezione che nessuno può prestare soccorso a tutti coloro che ne hanno estremo bisogno, l'autore replica che uno ha il dovere di aiutare "tutti coloro che è in suo potere soccorrere". Ma cosa significa "in suo potere"? Amici? Parenti? Conoscenti? Passanti incontrati casualmente? Quelli che uno riesce in qualche modo a "vedere"? Purtroppo spesso chi ama l'umanità quasi non "vede" i più vicini, è affetto da presbiopia morale. Lascia poi perplessi la esplicita adesione di Pontara a una visione utilitaristica (all' "utilitarismo edonistico dell'atto", per cui un•azione è retta se non ce ne è un•altra che produce un maggiore totale di felicità), alla pretesa cioè di stabilire o calcolare entità come il bene sociale complessivo, la felicità totale, la quantità di piacere e sofferenza. Non nel senso che non si possa parlare di felicità, ma nel senso che, come sapeva Kant, non si danno in proposito regole oggettive, universalmente valide. Come confrontare tra loro esperienze di piacere e di sofferenza? Usando il metro dell'intensità e della durata, come qui viene suggerito? E cosa significa distribuzione egualitaria della felicità? Non che Pontara non si ponga questi interrogativi, e anzi sa bene che la teoria che propone "non è scevra da problemi". Però, nonostante il loro problematicismo, a volte quasi pedante, si aggira in queste pagine lo spettro dell'ingegneria sociale, la suggestione dei modelli matematici, la malia dei diagrammi, l'utopia riduttiva dello scientismo. Da questo punto di vista si può legittimamente rimproverare ai filosofi di professione una scarsa attenzione alla letteratura, ai classici, al romanzo moderno, alla varietà e ricchezza di rappresentazione della "felicità" che in esso si ritrova. Non per impreziosire il loro stile (come spesso accade, con risultati deludenti), ma per far posto a una percezione più ampia della proteiforme "natura umana" e dei suoi sottosuoli, per sviluppare la propria riflessione "specialistica" entro un'antropologia meno schematica. L'ultimo capitolo del libro, quello probabilmente più "politico" (sui temi della democrazia e della libertà) risente in modo particolare della mancanza di qualsiasi riferimento alla realtà empirica. Si può sostenere che la concezione della giustizia di J. Rawls (di origine liberale) sarebbe compatibile solo con un modello socialista, ed è giusto ribadire che la libertà politica è legata al controllo sui mezzi di produzione, ma è davvero possibile ignorare che la parola d'ordine della collettivizzazione si è tradotta in alcuni esperimenti storici poco esaltanti? Pontara dichiara di trattare il problema "esclusivamente a livello teoricoideale", ma quando si parla di socialismo non ci si dovrebbe fermare a questo livello: il capitalismo ha raccolto consensi in larga parte del globo proprio su un piano pratico e non teorico-ideale... Pontara fa bene a sottolineare l'incompatibilità tra libertà e 17
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