IL CONTHTO ta morta senza concettualisnii: e invece còn un "anima". Ed è appunto l'anima di un'Inghilterra profonda che Davies vuole rendere, con la sua "storia", eventi, accidenti, e lo fa con una "crudeltà tranquilla". Quest'anima, questo elemento di comunità e di appartenenza, la sua continuità, la rendono soprattutto le canzoni (ben 38) che costituiscono la vera cultura popolare, una cultura orale ma non di parole. Esprimono - al pub, alle feste, al lavoro - i sentimenti dei personaggi, i loro pensieri e preoccupazioni quotidiani, dicono il "non-detto", ciò che è difficile comunicare direttamente - e si misura qui la distanza di Davies dai modi snobistico-estetizzanti con . cui certi intellettuali di sinistra hanno da noi rivalutato Sanremo. È tutto l'arco dell'esistenza che le canzoni coprono, amore e gioia, ricette culinarie e difficoltà matrimoniali, cori di unione e confessioni intime, ed è tutta una gamma di musica popolare pre-Beatles che viene riproposta, ricostruitaconcura precisissima, folk irlandese e cockney e blues, Sinatra e Nat King Cole, ecc., che il pubblico italiano non può apprezzare appieno, non solo per l'assenza assurda di sottotitoli, ma perché estraneo ai valori affettivi, allusivi, di ricordi, di cui sono impregnate. Sono la parte più estroversa e collettiva di quelle voci lontane, i sussurri della madre, le ire del padre, le confessioni e i timori delle sorelle, gli scherzi delle amiche, le eterne chiacchiere di sport e scommesse dei loro mariti, i varietà della radio, che risuonano nel passato autobiografico dell'autore e sono come il flusso regolare di uno strato di vita e di cultura operaia scomparse. C'è insomma dietro questo film di Davies, e si sente, la forza di un progetto autentico, sofferto davvero ("se non ci fosse sofferenza, non ci sarebbero veri film", dice), che, risolto in una personalissima visione, ne fa una vera esperienza, come ormai capita di rado al cinema. 30 CONFRONTI le sabbie ,roibite di lewis Nkosi, provocatorio romanzo sugli effetti dell'apartheid Fabio Gambaro Un uomo chiuso in una cella aspetta l' esecuzione capitale a cui è stato condannato per aver violentato una donna; nei giorni che precedono l'esecuzione, egli ripensa alla sua vita, alla somma di fatrori che l'hanno determinata, a tutto ciò che poco a poco lo ha condotto a trovarsi in quella prigione in attesa dell'impiccagione. Ad aiutarlo e a stimolarlo in questo tentativo di ricostruzione e di analisi è - unica presenza viva tra le mura del carcere - uno psicanalista svizzero, intenzionato a studiare un caso interessante. La situazione dunque sembra riprendere una tipologia già vista e raccontata altre volte, ma in questo caso c'è una differenza importante: l'uomo è un nero, la donna una bianca e il paese Ìl\ cui si svolge lavicenda è il Sudafrica dell'apartheid È questa la vicenda di Sabbie nere (Edizio- . ni Lavoro, pp. 174, lire 15.000), il primo romanzo di Lewis Nkosi, il giornalista e scrittore sudafricano in esilio all'estero dal 1960. Si tratta di un'opera coraggiosa e ben costruita, ricca di spunti interessanti e dominata da una solida architettura strutturale che ècapace di tenere insieme i diversi piani della narrazione - gli ultimi giorni del protagonista prima dell 'esecuzione, le discussioni con lo psicanalista, il ricordo dell'infanzia e dell'adolescenza del condannato, la rievocazione del "delitto" e del Dal film Saara di Souleymane Cissé. successivo processo -in un meccanismo narrativo avvincente che utilizza al contempo le tecniche del giallo e del romanzo psicologico, quelle del memoriale e del monologo. Il tutto dal punto di vista del condannato a morte che con il suo racconto cerca di affrontare ciò che gli è capitato, non tanto per dimostrare un'innocenza di cui neppure egli sembra essere certo - "a voler essere onesto fino in fondo, non sono affatto certo di essere innocente" -quanto piuttosto per spiegare a se stesso quale è stata la dinamica della follia che lo ha travolto, che lo ha condotto a commettere la più impensabile delle trasgressioni: quella di desiderare una donna bianca nel paese dellla segregazione razziale. Nella rievocazione della vicenda acquista allora importanza la figura dello psicanalista svizzero, unico interlocutore del condannato a morte. Il punto di vista di Dufré, questo è il suo nome, è appunto quello della psicanalisi che cerca di ricostruire i processi inconsci, le pulsioni profonde che hanno condotto il condannàto al gesto criminale; egli cerca così di scandagliare l'infanzia del protagonista, il suo rapporto con la madre, il passaggio dal villaggio di campagna alla realtà dei ghetti ai margini della grande città, i suoi rapporti con il mondo dei bianchi, la sua attività di studente. Ma l'approccio di Dufré risulta ben presto inadeguato a comprendere quanto è accaduto, perché, volendo ricondurre ogni cosa alle motivazioni
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