Linea d'ombra - anno VII - n. 34 - gennaio 1989

ILCONDITO INCONTRI Unavisita a PatriciaHighsmith MarisaCaramella Negli anni Settanta, quando il Mediterraneo pullulava di giovani espatriati americani, australiani, tedeschi, che sulla via delle Indie, o di ritorno da un deludente e difficile viaggio in Oriente, decidevano di eleggere a dimora più o meno fissa una delle tante isole greche, o il sud della Francia, o la campagna toscana, era facile, entrando in una delle case coloniche, o di pescatori, sommariamente riadattate per soddisfare le poche necessità degli abitanti, trovare sulla rudimentale mensola di legno appesa sopra il camino, i libri di Patricia Highsmith. In inglese, di solito, enell 'edizione riconoscibilissima dei Penguin verdi. La biblioteca, in questo genere di casa dove di solito non vivevano più di due persone refrattarie alle soluzioni più ampie e velleitarie della comune, non era mai fornitissima. C'eranopochilibridifilosofiaconservati per motivi puramente nostalgici, da Marx ai francofortesi, qualche Conrad e, nel caso degli americani, Henry James, il re degli espatriati; poi le molte bibbie dei molti profeti della generazione dei fiori, da Timothy Leary a Castaneda, ad Allen Ginsberg; e, scoperta sorprendente per chi non conosceva ancora i suoi libri, questa americana di Fort Worth, Texas, autrice di gialli, che aveva apparentemente in comune con i suoi cultori soltanto l'amore per i viaggi. Entrare ora nella casa di Patrieia Highsmith ad Aurigeno, nel Canton Ticino, è un'operazione nostalgica. Si torna indietro di almeno una dozzina d'anni, e ci si sente immediatamente a proprio agio. Almeno, se non ci si è ancora fatti sedurre dall'estetica degli anni Ottanta, se si continua aprediligere la solitudine, la riflessione, anche sgangherata, alla televisione, all'idromassaggio, alle cucine dov'è possibile confondere il cibo con lo scopo dell'esistenza, agli impianti stereo da discoteca. Patricia Highsmith indossa un maglione di lana rossa che cachemire non è, una collana folk di pietre color turchese che turchesi non sono, e si aggira silenziosa come i suoi due gatti per la cucina buia e 26 suggestiva che ricorda le decine di cucine buie e suggestive in cui si consumavano i riti del vagabondaggio ideologico degli anni Settanta. Non qui, però. Qui non si consuma alcun rito se non quello, tale. solo per la scrittrice, dell 'in- .tervista giornalistica (con Laura Lilli, de "La Repubblica"). La Highsmith non concede volentieri interviste, si sa. Elasuanonèlaritrosia strategica di chi vuole clamore intorno a sé, alla Umberto Eco, né la ritrosia nevrotica di chi vuol passare alla leggenda prima della propria morte, alla J. D. Salinger. Non è nemmeno una ritrosia dettata da paura di essere fraintesa, o da naturale diffidenza, o da snobistica propensione al no comment. Semplicemente, PatriciaHighsmith sembra trovare noiosa qualunque domanda, inutile qualunque risposta. Non dice, quello che avevo da dire sulla scrittura l'ho scritto (Suspense. Pensare e scrivere un giallo, La Tartaruga), e quello che avevo da dire sul mondo e i suoi abitanti l'ho esposto in tutti i possibili dettagli nei miei romanzi, ma l'espressione impassibile con cui resiste a ogni tentativo dell'intervistatrice di farle dire "qualcosa di più" è una vera e propria dichiarazione di neutralità. L'intervistatrice ha sottolineato alcuni passaggi dell'ultimo romanzo pubblicato in Italia (Quella dolce follia, Bompiani): sono concetti dichiaratamente misogini su uno dei personaggi femminili del libro, messi in bocca al protagonista. Che non hanno bisogno di spiegazioni. La scrittrice finge di non capire dove si vuole arrivare, e cioè alla dichiarazione esplicita di una sua eventuale misoginia, dei come e dei perché della medesima. Ma la Highsmith non è misogina. Misogini sono alcuni dei suoi personaggi maschili, e fonte di misoginia sono i comportamenti di alcuni dei suoi personaggi femminili. La sua fiction è fiction, finzione, per l'appunto, e non è detto che debba a tutti i costi rispecchiare la realtà, o le convinzioni della scrittrice. D'altra parte sarebbe davvero difficile che la realtà dei comportamenti superasse l'immaginazione che la Highsmith profonde nell'analisideimedesimi.Un'immaginazionechepartedritta per la tangentedella psicopatiaa poche paginedall'iniziodel romanzo, di solito, mache viene abilmentetenuta a freno, ancorata dalla scrittrice con dettagli del quotidiano e del sociale che costringono il lettore all'impazienza, all'inquietudine, alla perplessità e al dubbio. E anche al compiacimento perché la prosa ossessiva della Highsrnith sembra ribadire a ogni paragrafo l'assoluta "normalità" di quello che sta succedendo. Quello che sta succedendo è, in effetti, quasi sempre, assolutamente normale. L'azione devia in direzioni patologiche solo occasionalmente, non più di due o tre volte in ciascun romanzo, tanti sono di solito gli atti criminali veri e propri commessi dai suoi ineffabili assassini. Perché sempre di assassinio e dintorni si tratta. L' omicidio è il crimine peggiore che si possa commettere, risponde la Highsrnith a domanda. E aggiunge che però non se la sente di auspicare la pena di morte per chi lo commette, quasi a sventare un impossibile sospetto di odio viscerale per chi infranga questa basilare legge della convivenza umana. Una convivenza che si fa sempre più difficile per via della sovrappopolazione, è l'opinione della scrittrice, della mancanza di spazio, dell'irrazionale pretesa dell'uomo di sopravvivere il più a lungo possibile e di procreare senza limiti se non quelli posti dalla sceltaindividuale.Chespesso sceltaconsapevolenonè, comenelcaso delle migliaia di adolescenti americane, per lo più di colore, che ogni anno mettono al mondo una quantità di figli senza padre ai qualideveprovvederelostato.Che forse potrebbe fare qualcosa di più, se a presiederlo fosse un democratico. Come Dukakis, per il quale però la Highsrnith non intende votare. Lo detesta. Detesta l'idea stessa di elezioni ormai toPatrlcla Hlghsmlth (foto Martin• Franck/Magnum, dal "Magazine littéralre"). -

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