Linea d'ombra - anno VII - n. 34 - gennaio 1989

è riuscita a incidere attivamente sulla storia, ma non ha saputo nemmeno comprenderne il corso: e perciò si è precocemente rassegnata a svolgere mansioni di second'ordine, covando nell'intimo inquietudini che non è in grado di padroneggiare, e che la rendono paurosamente vulnerabile. ' La parabola, in sé, è tutt'altro che priva di efficacia. Ma a questo punto si apre il problema critico. Eco si era predisposto un materiale narrativo assai valido e lo aveva inquadrato in una prospettiva storica di grande rilievo. Ciò nonostante, nel suo insieme l'opera non tiene. Per quale motivo? Perché con questa prospettiva e con questo materiale Eco voleva scrivere anche, e forse soprattutto, un dotto e abile romanro di avventura e mistero. Perciò ha approntato una macchina narrativa ingente, che, giusta le norme del genere, mira a coinvolgere emotivamente i lettori, a stimolarne i sensi e l'immaginazione, ad avvincerli con effetti di suspence, e infine a suscitarne la divertita ammirazione per la complessità dell'intero marchingegno. La denuncia della fragilità e dell'impotenza dei confusi higbrowsnostrani si riduce così a pretesto per un'esibizione di erudizione e di bravura che va tutta a discapito dell'importanza dei temi affrontati (e che questa sia effettivamente la chiave in cui il libro viene di preferenza letto, stanno lì a dimostrarlo recensioni pur autorevoli, come quella di Le Goff apparsa su "Le Monde"e l"'Espresso").11 punto è che il soggetto del romanro, per manifestare il suo effettivo mordente, avrebbe richiesto un trattamento diverso, una diversa elaborazione letteraria. Sarebbe stato ad esempio un argomento ottimo per un conte philosophique di cento pagine; o per una narrazione più distesa, anche, ma giocata allora su toni più cupi e ossessivi, ovvero più aspri, più secchi, più sferzanti: caustici fino al disprezzo, o grotteschi fino alla crudeltà. Qui l'autore assume invece un'atteggiamenlo estremamente ambiguo. Da un lato ci mostra uno scacco della ragione, sotto le paradossali specie d'una parodia dell 'irrazionalismo misticheggiante che si confonde con il suo bersaglio originario; ma dall'altro non conduce l'operazione fino in fondo, perché non ha il coraggio di mettere le sue creature alla berlina, come pure meriterebbero, né la forza di oggettivarle, prendendo risolutamente le distanze da loro. Ne documenta l'insipienza e la labilità umana ma seguita a trattarli con comprensione corriva, nelle forme ora dell' ammicco erudito, ora dell'intenerimento elegiaco, premurandosi di salvarne ove possibile i residui scampoli di dignità. E così facendo compromette irrimediabilmente l'assunto critico iniziale, che avrebbe invece richiesto un grado di straniamento ironico maggiore (non importa se improntato a severità contristata o a impietoso sarcasmo), incompatibile con i meccanismi di identificazione sollecitati dal romanro d'intrigo e di mistero. L'incertezza della strategia compositiva è C(!nfermata da altri fattori. Di segni mal decodificati si può morire, ci ammonisce Eco. Ma esistono forme corrette di decodifica? La fiducia nelle facoltà razionali appare decisamente scossa. L'unico orizzonte positivo di sanità e di equilibrio è rappresentato (ovviamente) daM adre Natura, e si esprime soprattutto nel personaggio di Lia, la compagna di Pim, che in un paio di occasioni smascheragli imbrogli e le allucinazioni dei presunti scienziati dell'occulto. Ma la sua autorevolezza matriarcale, già non immune da un certo semplicismo, ha comunque respiro assai breve, giacché nella realtà ci sono problemi ben più seri e complessi delle cabale di qualche esaltato (e infatti i suoi moniti non servono a scongiurare la catastrofe). Un altro dato è però forse ancora più indicativo. L'azione del romanro, dall'incontro di Pim con Belbo alla morte di quest'ultimo, abbrac- · eia un arco di tempo che va dai dintorni del Sessantotto agli anni a noi prossimi del cosiddetto "riflusso"; ma per un certo periodo, che corrisponde agli anni di piombo, Pim si trasferisce in Brasile. Una buona opportunità per illustrare qualche rito tribale e stregonesco, ma anche una reticenza vistosa sul nodo più drammatico ART. C204 Globo terrestre pieghevole. Grazie alla sua forma cubica, questo globo può essere facilmente ripiegato e portato in cartella. Dal Cata/ogue d'ob/ets lntrouvables di Carelman. della nostra storia recente. La coincidenza, beninteso, non è affatto involontaria. Nemmeno Eco gioca ai dadi, e infatti nel punto culminante del romanzo, con elegante contrappasso, sarà proprio una (falsa) accusa di terrorismo a mettere Belbo con le spalle al muro. Ma per quanto intenzionale, la latitanza di Pim resta pur sempre una scorciatoia. Si badi bene: non che spellasse all'autore del Pendolo di fornire analisi esaustive di questioni storiche così intricate -- non si chiede ai romanzieri di rubare il mestiere ai politologi. Ma una volta proclamata l'incapacità degli intellettuali, giovani emeno giovani, di spiegarsi come (per usare l'espressione di Bel bo) un 'intera generazione abbia cantato la Carmagnola e si sia poi trovata inopinatamente in Vandea, sarebbe lecito attendersi che al lettore venisse trasmesso il senso della gravità di tale inadempienza: cosa che Eco francamente non fa, vuoi perché preferisca evitare al suo pubblico turbamenti eccessivi, IL CONRSTO vuoi perché abbia troppo a cuore l'autonomo suo gioco di alchimia narrativa. In ambedue i casi, dalla Vandea non s' esce: mentre i criteri di giudizio si annacquano, s'intorbidano, e l'esemplarità della vicenda narrata perde evidenza ed efficacia d'impatto. All'Eco narratore fa insomma difetto proprio una delle qualità più eminenti dell'Eco saggista, cioè la capacità di circoscrivere con esattezza e di metter ben a fuoco gli obiettivi perseguiti via via. A imporsi è invece una sorta di intemperanza fabulatoria, che sovraccarica il racconto rendendone quanto mai difficoltoso il controllo estetico. Le incongruenze strutturali si manifestano in primo luogo sul piano della scrittura. Non credo valga la pena di insistere sulla mole, invero sconcertante, di erudizione più o meno bizzarra che intralcia lo svolgimento del racconto. Andrà invece rilevato come i diversi toni e registri narrativi risultino giustapposti, più che rifusi in un organismo unitario: senza peraltro produrre quegli effetti di asperità e di stridore di cui potrebbe giovarsi un intento di programmatica, provocatoria sgradevolezza, ovviamenteestraneo al gusto post-moderndi Eco. Gli esiti espressivi rimangono quindi lontani, tanto per star in tema di complotti e segreti, sia dalla sapiente e compatta costruzione del Rondò di Kazimierz Brandys, sia dal!' orchestrazione briosa e dal sapido umorismo di A che punJo è la notte della ditta Fruttero & Lucentini. Certo, dalle 500 e più pagine del Pendolo di F oucauù si potrebbero ritagliare gustosi e pungenti brani, della misura del "diario minimo": penso alla descrizione della casa editrice Garamond, al singolare osservatorio politico costituito dal bar Pilade, a certi lucidissimi dialoghi fra _Belboe Pim. Ma che Eco fosse un maestro di questo scrivere breve (come, non dimentichiamolo, di tante altre cose), lo si sapeva già; come si sapeva dal pur tanto più riuscito Nome della rosa che non possiede la vocazione e il fiato del romanziere di razza. Quello che convince meno del Pendolo è proprio il progetto complessivo dell'opera. Eco oscilla fra la seria comicità con cui concepisce la disfatta intellettuale e morale dei suoi personaggi, da un lato, e la solidarietà umana e la complicità sentimentale che non sa negar loro, dall'altro: e cerca di risolvere le due contrastanti prospettive nelle spire seducenti e consolatorie di un intrigo neogotico, di cui lo affascina il carattere di puro gioco letterario. Ma ciò che ne sortisce- forse al di là delle intenzioni dell'autore-è unrelativismo ambiguo, a mezza via fra lo scetticismo rinunciatario e il disimpegno edonistico. Nessuna sorpresa allora che nelle battute conclusive del libro la natura sia presentata, più che come sorgente di una chiarezza di sguardo e di pensiero che si direbbe davvero perduta, come oggetto di una contemplazione sfinita e struggente, nell'attesa di un destino al quale è inutile tentare di opporsi. La Storia marcia, ma non si sa dove vada; la Terra gira-e il pendolo di Foucault lo dimostra - ma la letteratura non sa far altro che prenderne alto. Perfino le parole sono sfuggite al nostro controllo: ma l'impressione che ce ne viene è meno di una mancanza che di un semplice vuoto. E quei movimenti misteriosi e eguali, pacificamente inesplicati, appaiono al nostro sguardo smarrito sempre più grevi, sempre più stolidi, sempre più sinistri. 13

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