Linea d'ombra - anno VII - n. 34 - gennaio 1989

IL CONTHTO gli strateghi militari inventori dell'espressione "missili di teatro": un significato, è chiaro, che non tollera interpretazioni troppo astratte e sottili. A dire il vero neanche la prima sezione di questo libro è composta propriamente di racconti. Per buona parte infatti Teatro raccoglie i frammenti di un possibile romanzo storico sulla Sicilia ali' epoca dello sbarco degli americani nel 1943. È un momento storico di speciale importanza anche perché portatore di grandi speranze, presto spente però dalla violenza del neo-capitalismo; e si veda il confronto fra i viaggi siciliani dei libri di Vittorini, così carichi di utopie, e la feroce disgregazione della Sicilia di oggi, che spinge a constatare che il fermento del dopoguerra "era solo terremoto, alluvione, mareggiata che distruggeva per sempre un mondo e lasciava una desolata spiaggia". Tornano qui temi già centrali ne Il sorriso dell'ignoto marinaio: la rivolta popolare (tutta la serie Ratumemi è centrata su un episodio di occupazione di terre), la continuità del potere economico-sociale al di là dei cambiamenti formali di governo. In una complessiva felicità di esiti, credo che le predilezioni abbiano molto di soggettivo: ma mi permetterò però di esprimerne una, per Lo Sherman, descrizione dell'arrivo del primo tank americano nel paese di Mazzarino. La sezione Persone raccoglie invece una serie di ritratti di intellettuali: Sciascia, Buttitta, Antonino Uccello, Lucio Piccolo e ... Vincenzo Consolo da giovane. Qui, come nella parte successiva, si ha costantemente la sorpresa, mi perdoni l'autore, di leggere pagine assai belle e pure estremamente asciutte, relativamente lontane dal vertiginoso pluri-linguismo di Retablo ( che in questo senso è però un casolimite) ma anche di non pochi dei brani qui raccolti. Di grande suggestione è la fulminea istantanea di Sciascia giovane (che un inizio memorabilmente blasfemo sembrerebbe per un istante assimilare a Gesù Cristo: "Veniva giù da via CONFRONTI Redentore un uomo piccolo e bruno, di trentatré anni, capelli lisci sopra l'alta fronte"), ma anche il più lungo e articolato ritratto della famiglia Piccolo, con il ritorno di un altro leit-motiv minore del libro, quello della magia. Con Eventi lo scrittore si arrischia ad un contatto ancora più bruciante con la storia, e anzi con la cronaca, confrontandosi con un passato che ha appena smesso di essere presente. Un pezzo come il Memoriale di Basilio Archita, nato da una rielaborazione a botta calda dell'episodio dei clandestini africani buttati in pasto ai pescecani da un mercantile greco, è in questo senso una specie di scommessa, molto rischiosa per uno scrittore di letteratura, e tuttavia vinta. Consolo riesce qui a disegnare una prima persona narrante semi-incolta davvero agli antipodi del tono medio della sua scrittura, e tiene abilmente in sospeso il lettore non spiegando esplicitamente la situazione (anticipata però tra le righe con il motivo dello sbranamento) fin quasi alla fine del racconto. A questo punto però si sarà capito che le "pietre" antiche del titolo valgono soprattutto per la loro opposizione polemica con le "macerie" moderne, con lo squallore non riscattabile delle tragedie dell'Italia e della Sicilia di oggi. Questo assoluto contrasto è del resto il tema esplicito del pezzo omonimo al libro, che si rivela alla fine, contro le prime apparenze, fortemente attualizzante, sia pure nei modi mediati di una scrittura iper-letteraria come quella di Consolo. Le ultime parole del libro, affidate al marittimo Basilio Archita, suggeriscono probabilmente, insieme a un autoritratto di uno scrittore estremamente schivo ("lo non sono buono a parlare, mi trovo meglio a scrivere"), una chiave di lettura che è forse quella più giusta. "Non so semi imbarcheròpiùsu una nave" scrive Basilio "Adesso voglio solo andarmene, passare questa estate al mio paese". La nave degli orrori, da cui il marinaio vorrebbe scendere, è, con ogni probabilità, quella su cui siamo imbarcati tutti: ma il paese in cui tornare non c'è più. Eppurnon si muove. UmbertoEcotra scetticismoe disimpegno. Mario Barenghi L'impressione che suscita la seconda, attesissima prova narrativa di Umberto Eco,!/ pendolo di Foucault, è che si tratta di un libro assai significativo e, anzi, a suo modo, importante. Di un bel romanzo no, purtroppo. Ma con ogni probabilità, come sovente accade, le due cose sono legate indissolubilmente fra loro. Cerchiamo di capire perché. Il pendolo di Foucault contiene fra l'altro una vera e propria dichiarazione di bancarotta degli intellettuali del nostro paese. Qualcuno vorrà forse mettere in discussione il grado di rappresentatività dei protagonisti, in particolare del narratore Pim, studente universitario nel '68, e del più anziano Jacopo Bel bo, a sua vol12 ta saltuario narratore_per interposto computer (non a caso, le due figure tendono nel finale a sovrapporsi). E senza dubbio sarebbe improprio considerarli come semplici proiezioni dell'autore, anche se Bel bo ha l'età di Eco, è piemontese come lui, lavora in una casa editrice, ha uno spirito brillante e arguto, è di sinistra, e così via. Nemmeno si può dire però che questi personaggi siano degli sprovveduti, portatori di un'ottica ingenua, come il novizio Adso del Nome della rosa; da questo punto di vistala differenza fra le due opere è molto netta. Anzi, la cultura e l'ingegnosità di cui essi fanno volentieri sfoggio, nonché le loro stesse doti introspettive e autocritiche, li pongono non di rado al di sopra del lettore, o tutt'al più alla sua altezza, ma certo non al di sotto. E quindi più che legittimo ravvisare in loro gli interpreti di settori estesi dei ceti colti nazionali. dei quali condividono, secondo la prospettiva di due generazioni complementari, speranze, delusioni, frustrazioni, disincanto. A Eco va dunque sicuramente riconosciuto il merito di aver scelto un soggetto di non comune impegno: di avere, come si suol dire, mirato alto -- ciò che non è piccola cosa, dati i tempi che corrono. E tuttavia la sentenza di bancarotta di cui dicevo non si esprime in termini di dramma o di denuncia: piuttosto, ha il sapore di una constatazione arresa, come di qualcosa di noto ormai, di acquisito ai limiti dell'ovvietà, che perciò si presta tranquillamente a divenir materia di un'operazione diversa, puramente letteraria, e sostanzialmente conservatrice sul piano ideologico. Intendiamoci. Con maggiore o minore rammarico, di un fallimento degli intellettuali ad esercitare, in particolare negli ultimi vent'anni, un ruolo di guida nello sviluppo del paese, ce n'eravamo accorti tutti. Ma esso rimane ciò non di meno un fenomeno cruciale nella recente storia italiana, un fatto degno di analisi e di meditazione. La rappresentazione letteraria che non renda ragione della sua gravità finisce di necessità per sminuirlo al rango di evento marginale, ovvero, per accettarlo pacificamente: ipotesi queste, a mio modesto avviso, deplorevoli entrambe. · L'intreccio del Pendolo di Foucault è ormai familiare a tutti. Tre redattori di un casa editrice milanese vengono a contatto con alcuni tipi stravaganti, diversamente connotati (eccentrici, visionari, ciarlatani, fanatici), appassionati e esperti di occultismo. Un po' per caso, un po' per curiosità, un po' per assecondare gli interessi dell'editore che ha fiutato il genere librario di successo, i tre si addentrano nel groviglio di congetture fantasiose di cui si ravvolge e nutre l'oscuro mondo delle sette segrete. Divertiti in un primo tempo; affascinati poi, abbacinati infine dalle dicerie insistenti di trame ordite nei secoli dagli iniziati d'ogni specie, i tre decidono di escogitare un loro "Piano", cioè di reinterpretare l'intera storia moderna come manifestazione di un colossale complotto che coinvolge tradizioni ermetiche e esoteriche e protagonisti ed emblemi della storia della scienza in un vertiginoso sincretismo misterico. All'inizio si tratta solo di un passatempo, di una parodia dei deliri altrui; ma i deliri sono contagiosi, e il gioco si ritorce contro i suoi incauti ideatori. Dal complotto immaginario ne scaturirà uno autentico, ché porterà i protagonisti a una rovina tanto assurda quanto inevitabile. La vicenda si riallaccia a importanti motivi del Nome della Rosa, e in particolare alla desolata citazione su cui si chiudeva il racconto di Adso: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. I nomi, appunto, i segni, costituiscono in un certo senso l'oggetto principale del nuovo romanzo. Parole e idee, apparentemente svincolate dalla realtà, ridotte a vuote etichette, rischiano di offrirsi alle manipolazioni più sfrenate e arbitrarie, che un capzioso furore semiotico può spingere fino alla paranoia autodistruttiva. Detto altrimenti, Eco inscena le estreme e fallimentari prove di una intellettualità disorientata e mediocre, che non solo non

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