di un'epoca, gli anni Venti e Trenta, ricostruito da uno che c'era, attraverso lucidissime descrizioni di ambienti e persone. Ritratti brevi e spesso folgoranti: oltre il clan dei Mann, Gide, Crevel, Auden, Isherwood, Roth, Toller, Brecht, Cocteau, Benn, Huxley e cento altri. La svolta voleva essere secondo l'autore, "la storia di un intellettuale tra due guerre mondiali, ... che quindi ha passato gli anni decisivi della·sua vita in un vacuum sociale e spirituale, e perciò affannato a trovare una connessione con una qualche comunità, a inserirsi in un qualche ordine, sempre sospeso, senza pace, cacciato qua e là, sempre in cerca ... ; la storia di un tedesco che volle diventare europeo, di un europeo che volle diventare cittadino del mondo; la storia di un individualista cui ripugna l'anarchia quasi come la standardizzazione, l'allineamento, l'irreggimentamento; la storia di uno scrittore i cui interessi primari risiedono nella sfera estetico-religiosoerotica, ma che sotto il peso degli eventi perviene a una posizione di consapevolezza della propria responsabilità politica, persino di lotta ... ". Questo era il progetto, e il risultato è pieno. Gli anni Trenta appaiono sempre di più come quelli decisivi, quelli della "svolta" di un secolo e dell'apertura all'orrore del futuro, ancora irrealizzato. Tornarci è utile, e l'occasione è ottima. Il più intrigante. Diego Mormorio ha raccolto per gli Editori Riuniti testi molto suggestivi in Gli scrittori e lafotografia, un libro che non mi pare abbia molti equivalenti in altri paesi. Non sto a nominare gli antologizzati, che vanno da Apollinaire a Zavattini, da Baudelaire a Kundera, Barthes, Calvino ... Gli scrittori riflettono sulla fotografia, la comparano alla letteratura, ne dicono le differenze e le specificità, e dicono poi le qualità del singolo fotografo, grande o anche, come Robbe-Grillet su Hamilton, per solidarietà lolitistica, men che mediocre. Trascurando le scemenze del tipo "è la fotografia un'arte?", Mormorio ha scelto acutamente le letture più diverse della fotografia come forma d'espressione e soprattutto di comunicazione, intervallate da curiosi o acuti "ritratti di fotografi" a opera di scrittori. In definitiva, però, le letture possono venir ricondotte a due filoni dominanti: quello "metafisico" (la fotografia come sollecitatrice di discorsi sulla morte, sull'identità, sul tempo e lo spazio) e quello "socio-antropologico" (la fotografia come descrizione del mondo e intervento nel mondo). Il suo è un libro di riferimento fondamentale, e le sollecitazioni a una discussione vi sono infinite. Mi limito a ricordare come assai convincenti le posizioni di Doblin: contro i fotografi-artisti o artistoidi, contro i finti realisti alla caccia di "somiglianza", per i fotografi-sociologi ... Ma a patto di dare del foto-sociologo una visione meno restrittiva di quella di Doblin, a patto che si possa vedere il fotografo come sociopoeta. Il più utile. È il. volumozi:o (1500 pagine, 48.000 lire) della Nuova Enciclopedia delle Scienze Garzanti, che ha avuto redazionalmente la cura centralizzatrice di Emanuele Vinassa de Regny. M'intendo poco di scienza, ma ecco un libro da scrivania, vasto e preciso, suscitatore di curiosità oltre che fornitore di notizie attendibili su cose che mal si conoscono. Guai a non averlo! Il più "italiano". È il romanzo di Nico Orengo Ribes (Einaudi), felice meccanismo al limite del vaudeville, movimentatissimo quadro di una società "vitale" almeno quanto un formicaio, che conferma l'opinione di chi pensa che il nostro paese sia abitato da due razze dominanti: le cavallette e i puffi (con la sottospecie delle cavallette che si credono puffi e delle cavallette che si mascherano da puffi). Per fortuna ci sono, anche qui, i quasi-marginali. Di questo romanzo ho scritto altrove, ma voglio ricordarlo, perché non sono molte le opere che sanno coniugare così attentamente fiabesco e reale, a partire da un 'idea dell'Italia meditata e convincente. Orengo è diventato adulto, e speriamo che sappia rimanerlo con questa vivacissima grazia. Il più sciapo. È il libro in cui Giulio Einaudi raccoglie le sue memorie, o meglio i suoi Frammenti di memoria (Rizzali). Si è. letto raramente un libro più incolore e più insapore. E ci si domanda come ha potuto l'autore essere l'editore che si sa, visto che talenti particolari qui non ne dimostra, oltre il gusto per le tipografie e per la collezione di case. Il mistero resta, anche se in generale risulta ormai chiaro (anche dalla lettura di uno dei tanti libri di memorie editoriali di Bompiani, che· pure sa scrivere un po' meglio di Einaudi) che il mestiere dell'editore è in molti casi la vocazione di un ricco. Meglio: di un figlio di ricchi, che dai genitori eredita anche la capacità di IL CONTESTO giocare coi soldi. E - credo, nel caso di Einaudi - ha di suo l'abilità tutta politica di combinare o scombinare gruppi (di persone in genere molto molto più povere di lui). Non ho il mito degli editori e neanche dei redattori di case editrici: è un mito costruito da loro s,tessie dai loro, in vario modo, dipendenti. Riassumerò quindi con un aneddoto. Anni fa ('61) passeggiavo per il corso di Perugia al seguito di Capitini e Ernesto Rossi, che parlava sputacchiando come suo solito e s'era lanciato in un grande elogio della multiforme attività di Adriano Olivetti. "Adriano di qua e Adriano di là", ma alla fine Capitini lo interruppe, pacificamente sornione: "Ernesto, se avessi avuto io i soldi che ha Adriano, forse a quest'ora ci sarebbe il socialismo in Europa". Scherzava, scherzava. A destra: Nico Orengo (foto Giovanni Giovannetti). A sinistra: Einaudi (foto M: E. Smith/Agen:z:ia/Gra:z:ia Neri). 9
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