MUTATOINCAVALLO (RICORDI) Marcello Gallian . s cendevo le scale e al secondo piano all'improvviso le scarpe son diventate zoccoli; sono caduto a faccia in avanti. . Le mani, le mie mani, quelle che carezzano i figli e tolgono alla donna le vesti, quelle stesse che spesso portava alla bocca mia madre, ecc0, ad un tratto le mani erano due zampe. Subito m'è venuto in mente che sarei stato attaccato dai tafani rabbiosi e dalle zecche: per fortuna era notte e una notta gelida, aspra, convinta del suo buio profondo, messa attorno alle luci dei fanali. Avevo vergogna ancora che mi incontrassero, così, animale, sulle scale. M'eran cresciute le orecchie. I denti grossi e robusti, man mano che la faccia si tramutava in muso. Le froge, secche, nuove, quando fui al portone, erano umide di già. Facevo un chiasso indiavolato. Ad un tratto si aprì una porta, un uomo mezzo nudo guar: dò, vide e si ritrasse con forza: non aveva creduto. L'ultimo pensiero, mentre mi cresceva la coda lunga e nera, fu rivolto alla mia umanità antica e alla ragione, inesplicabile, di tanto tramutamento. Poi fui sulla strada. Oggi, ritornato uomo, mi rammarico d'aver abbandona- ; to quel mio stato intermedio e bestiale. Si viveva bene da cavallo. Andavo così muovendo il collo, quasi pensieroso: avevo una gran fame; Divoravo l'erba rara d'un giardino pubblico. Ormai brucavo. Masticavo e la saliva era verde, sotto la luna. Una semifelicità smisurata, una mezza beatitudine esterrefatta. Quando mi vennero da presso le guardie. Parlavano. Mi credettero un nottambulo, forse capirono che avrei commesso qualche delitto, calpestando un uomo, calciando un fanciullo. Mi portarono in questura. Fecero ricerche, ma non trovarono il mio padrone. Io guardavo i poliziotti, la branda, il lume, le brutte penne, la calligrafia sbagliata e non capivo. Non vedevo nemmeno che erano uomini e cose a me dattorno: ma vedevo l'erba, conoscevo l'acqua; annusai l'inchiostro e mi ritrassi subito. Dopo quattro giorni ero costretto ad un carro. Il padrone mi frustava a sangue: mi mise un tafano dietro la coda e me lo tenne, in quel luogo, fermo; dopo qualche tempo, il tafano s'era abituato alla mia carne e al mio sangue. Il pungiglione mi feriva lungamente, poi il sangue scendeva dal mio corpo a confortare il corpo dell'insetto. Quando era ben grasso, quattro cinque gocce, l'insetto si addormentava e con lui il padrone sul carro. Il carro gremito di selci era pesante. Io tiravo: ma mi sentivo impigliato, rigonfio, provvisto di troppi piedi, l'aria m'entrava tutta nelle froge e mi rinfrescava il lontano cuore. Mi sforzavo di ridere e non ci riuscivo; ma nitrivo con tutti i polmoni e nitrivo per dire che ero stanco e nitrivo per far intendere che ero pronto a tirare. I lamenti erano nitriti, soltanto così le esplosioni di gioia: gioia e dolore erano magri, esili, nel corpo vasto. Le zampe posteriori non riuscivo a vederle e credevo di non averle. Un giorno sentii qualcosa al garetta posteriore: era una piaga. Le mosche vi ronzavano sopra. Le ali stormivano sulla carne viva, alzando, col vento leggero, pepite di sangue. Mangiavo la paglia: il cibo era Dio. Insaziato, senza provare passione. Quando il ventre era pieno, dormivo, ovvero dimenticavo il cibo. Il tafano dormiva, in fondo a me, an88 che lui, sazio. Moriva così: con un po' di acqua e sangue. Messo sulla carta e schiacciato con un dito, avrebbe fatto uno sbaffo: tutta la sua vita consisteva in quello sbaffo . U n giorno andammo in campagna. Nemmeno so o ricordo che giornata fosse. Ma gocce d'acqua mi fradiciavano. Nubi mi scendevano fin sugli occhi. Tenevo fra i denti un pezzo di ferro rugginoso che non potevo masticare. Le foglie bagnate mi piacevano e n~n sapevo perché non avrei potuto fermarmi ad un albero: foglie fresche e morbide, condite con l'acqua. Lo stomaco le reclamava. Ad un tratto il padrone discese. Mi fermai a due passi di distanza; alzai uno zoccolo. Poi, attratto dalle foglie mi avvicinai - non sapevo che erano foglie, ma conoscevo la misura e la forma di quelle creature. - Brucai un ramo, le foglie mi entravano così nell'esofago. Ne mangiai tante. Ma, all'improvviso, il mio corpo si sentì battuto tre quattro volte con l'asta çlella frusta. Mi bruciava la pelle. Ricevetti un colpo anche sui labbroni. Provai a correre; tre volte. Mi fermai: botte. Mi -impennai: botte ancora. Il sangue riscaldato svegliò il tafano che si mise a succhiare. Poi vennero altri tafani, che imitarono il primo. Il padrone picchiava sempre. Di notte, mi picchiò ancora. Cominciai a menar calci. Non riuscivo a strappare la cavezza. Volevo fuggire. Ma sarei tornato. Dove può andare un cavallo? È deciso che un cavallo deve tirare il carro o portare in groppa un tale, messo a gambe divaricate ..A poco a poco mi mancava il fiato. E nitrivo. · Poi si misero in quattro a pestarmi: tutta la famiglia e mi strinsero il muso in tal modo, che non potevo nemmeno nitrire più e il suono mi ritornava dentro e mi scuoteva le budella. Mi uscì molt'acqua: quasi un litro, o forse più. Quando mi battevano, dovevo fare quell'acqua, che, abbondante, partiva da lontano e cadeva in terra diventando io più leggero. Un ragazzo mi dava calci contro il ventre. Sino a che mi distesi in terra e rimasi così, muto e vuoto, con gli occhi chiusi. M i si presentava dinanzi uno spazio enorme; io guardavo, cavallo, le stelle, molti punti luminosi. Un bisogno prepotente era in me d'assalto e nitrivo quando sentivo una cavalla pascolare nel prato. Era bella di forme, ma non la capivo: per me, era un cavallo speciale fatto in tal modo, così costruito, che, per un ghiribizzo legittimo, naturale, potevo avvicinarmi a lei e fiutarla; Da magri odori sentivo trattarsi di un mobile speciale, magari femmina, costretta a trascinare il carro dei marmi. Spaccavano infatti un colle. Una montagna che prima s'elevava al di sopra del caseggiato, quasi una torre di molta terra, una grossa elevazione di terreno non c'era più, rasa al suolo, ridotta a pezzi: quella montagna, ora, s'era mutata in rione fornito di molti palazzi e un pezzo, si direbbe una mollica, era finita sul tavolo d'un signore. La femmina trascinava quella montagna ridotta a blocchi. Ammusonita andava coi fianchi ondulasi. Il padrone la
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