Linea d'ombra - anno VI - n. 33 - dicembre 1988

dal cuore dell'universo linguistico, la poesia si sia trovata a occupare solo una nicchia del sistema letterario: una nicchia preziosa, forse, ma appartata, e tendenzialmente marginale. Questa perdita di centralità si è riverberata sulla fruizione della poesia più antica. Noi leggiamo ancora Leopardi e Petrarca, Baudelaire e·Montale, Orazio e Shakespeare, ma in modo ben diverso da come faremmo, se la nostra lettura fosse condizionata e, per dir così, guidata da una viva familiarità con le espressioni poetiche dei nostri giorni. Li leggiamo ancora, ma in maniera differente: ora sospesa e astratta, ora storicizzante ed erudita, ora strettamente proiettiva e idiosincrasica, e quiridi, a seconda dei casi, o straniata o evasiva. Di qui la sensazione di disagio di cui si diceva sopra. Venendoèi a mancare un contatto sicuro con le letture degli altri - che può essere garantito solo dalla frequentazione comune della poesia attuale, intesa nel suo carattere di istituto sociale ,e letterario - corriamo costantemente il rischio, anche leggendo gli autori e i testi più classici, di caverne un'esperienza irrelata e gratuita, e perciò arbitraria, inconcludente: poco più che un'innocente mania o una piccola nevrosi, un hobby, insomma. D'altro canto, è naturale che chi non voglia adattarsi a questo stato di cose, a leggere poesia faccia sempre più fatica. Non perché la Iettùra di una raccolta di versi sia in linea di principio più impegnativa della lettura di un romanzo - questo è ovvio - ma perché è difficile indovinare come leggerla: trovare il modo giusto, la giusta intonazione. Esiste ancora una giusta intonazione per leggere poesia? Ecco, questo è il punto. La poesia dovrebbe innanzi tutto essere letta ad alta volce: il suo legame con la cultura e l'espressione orale è costitutivo e intrinseco, e la stessa lettura mentale ne risente, mimando o ripercorrendo le cadenze 1/ e i ritmi della recitazione viva. Ma ciò significa anche un'altra cosa: che la poesia, in quanto tale, presuppone il silenzio. La voce monologante che si leva a scandire il discorso poetico esige la campitura di uno spazio sgombro, pronto ad accoglierne le risonanze, a rifrangerne le vibrazioni, a rinviarne gli echi. Non si tratta, beninteso, di una semplice assenza fisica di suoni, di un vuoto acustico (di cui pure è tanto difficile godere), ma di un silenzio interiore, virtuale: di una sospensione dell'ingorgo linguistico che caratterizza la nostra esperienza verbale quotidiana. Noi viviamo in mezzo a parole che ci pressano e ci urtano, assai più di quanto ci parlino, cioè si rivolgano a noi: e una spontanea reazione difen~ siva ci induce a escluderle, come irrilevanti e fastidiose, dallà nostra coscienza. Ma in tal modo .è inevitabile che l'udito, costretto ad adattarsi a un ambiente ostile, finisca per ottundersi. Degradata a rumore, la tumultuante massa di messaggi da cui siamo ogni giorno assediati, letteralmente, ci assorda; e l'orecchio della mente smarrisce in primo luogo la facoltà di percepire quel silenzio, di cui la poesia necessita IL CONTESTO per germogliare. Nessuna sorpresa allora che non riusciamo a trovare l'intonazione giusta: è la sordità che ci rende stonati. Meglio rinunciarvi, quindi, senza rimorsi. Tacere. Non leggere. E in effetti può darsi che nel mondo odierno per la poesia non ci sia semplicemente più posto: che fra l'universale e chiassosa dissipazione del linguaggio e una pace fittizia, fondata sulla regressiva indifferenza e sull'oblio, non ci sia più posto per il distacco relativo e cosciente propizio a una dicitura netta, autorevole, non effimera e non velleitaria. Sarebbe una deduzione triste, ma non inverosimile; forse lo sospettavamo da tempo, senza osare confessarlo. Ma sinceramente·a me i verdetti drastici piacciono poco, anche perché sospetto sempré che suscitino difficoltà più gravi di quelle che pretendono di risolvere. Proporrò quindi, in via cautelare e interlocutoria,. due conclusioni alternative. ·La prima è di ordine pratico. Se non riusciamo più a leg- . gere poesia, forse è venuto il momento di ricominciare a studiare delle poesie a memoria. La vera "lettura" diverrà allora l'auto-recitazione effettiva, eventualmente a mezza voce: nella quale la fisicità dei suoni e dei silenzi soccorrerà la contaminata acustica mentale, ricreando le condizioni primarie di esistenza del discorso poetico. In fondo la poesia è nata per essere imparata a memoria, per essere declamata e tramandata oralmente: Qualcuno forse obietterà che una buona parte della poesia contemporanea è quasi impossibile da mandare a memoria: ma a costoro non so cosa rispondere. Pazienza. La seconda è connessa alla prima, ma ha una validità più generale. Che la poesia sia nata per esistere nella memoria, significa, ìn altre parole, che la poesia si è istituita come discorso essenzialmente memorabile, in opposizione ad altre forme, occasioni ed evenienze verbali legate alla sfera della praticità o dell'immediatezza. Ebbene, io ritengo che questo carattere della poesia serbi tuttora un'importanza fondamentale, e che meriti di essere, per quanto possibile, salvaguardato. La poesia è innanzi tutto lo spazio istituzionalmente deputato alla coltivazione della memoria verbale: essa può dunque continuare a esercitare una decisiva funzione regolatrice e ammonitrice, anche quando tale spazio rimanga (occasionalmente o meno) vuoto. Rimossa dal centro del~ l'universo linguistico (e non c'è ragione di credere che tornerà presto a .occuparlo), la poesia conserva tuttavia un insostituibile valore di principio, come orizzonte e paradigma di rnemorabilità. Che la produzione poetica attuale sia in grado di onorare pienamente questo compito, non Io darei per certo, ma non importa troppo. Importa invece moltissimo che nella nostra coscienza linguistica, disorientata e logora da quella che è forse la forma più negletta e insidiosa di inquinamento, permanga l'idea di una distinzione. fra ciò che merita e ciò che non merita di essere ricordato, anche parola per parola, e tramandato, cioè comunicato, e non soltanto riprodotto. Di questa idea la poesia può essere la più zelante, la più efficace, la più affettuosa custode. Ma a una condizione: che essa non rinneghi, semplicemente, il volgare fracasso che ci sommerge, postulando un silenzio che non esiste più: giacché questo sarebbe il più facile e opportunistico adattamento a una realtà in fondo davvero "impoetica", cioè pochissimo propensa a distinguere e a ricòrdare, e incline a disciogliere ogni forma di poiesis in una praxis ininterrotta e sinistramente frenetica. Solo in tal modo la poesia - e s'intenda, in primo luogo: la nostra esperienza della poesia - potrà sottrarsi (e sottrarci) all'assordamento, conservando un'autentica ragion d'essere. Al di là delle nicchie, più o meno preziose, che nella sua sagace indulgenza il nostro sistema non nega a nessuno. 7

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