Linea d'ombra - anno VI - n. 33 - dicembre 1988

IL «;ONTESTO Non leggere poesia Mario Barenghi La poesia come memoria: cir,a modesta proposta èontro la tendenza, per sfuggire al fracasso del presente, a rinchiudere la poesia in una nicchia preziosa e forse superflua. Io leggo poco, molto meno di quanto vorrei, non solo, ma molto meno di quel che dovrebbe decentemente fare chi abbia la pretesa di_occuparsi di letteratura. Ciò dipende da vari motivi, che naturalmente non interessano nessuno; c'è tuttavia in questo fenomeno un risvolto che mi preme segnalare, perché non credo riguardi me solo. Si tratta di questo. In genere, della scarsità delle mie letture io mi vergogno e mi rammarico, per ogni campo: per la narrativa, la saggistica, la divulgazione scientifica, perfino (a volte) per l'informazione libraria. Per la poesia, invece, no. Fra i pochi lìbri che leggo, di poesia ce ne sono pochissimi, sempre meno: eppure non riesco a sentirmene colpevole. Mi sembra che questa circostanza non dipenda (non principalmente, almeno) da mie manchevolezze: dalla mia ottusità, dalla mia pigrizia, dal cattivo uso del tempo e del cervello. Mi sembra, in altre parole, che qui si nasconda un fatto di rilievo generale, degno di riflessione e forse importante (che poi, fra le varie cose che m'ingegno di fare, sia degna di riflessione una cosa che non faccio, è un'altra questione squisitamente privata). Non vorrei essere frainteso. Non è alla poesia contemporanea che mi riferisco, ma alla poesia in genere; non è quindi mia intenzione esprimere, neanche iq forma velata, un giudizio critico negativo sulla produzione poetica attuale, Inoltre, non sono affatto fiero di non leggere poesia: tutt'altro. Vorrei essere in grado di farlo, sinceramente, così come· vorrei ascoltare musica più spesso; ma l'una cosa e l'altra mi riescono sempre più difficili. Quanto segue è un primo tentativo di chiarirne le ragioni. È assolutamente chiaro, tanto per cominciare, che il (mio: ma non solo) disagio di fronte alla poesia non dipende affatto da un presunto carattere prosaico o impoetico della realtà in cui viviamo. Gli uomini sono sempre stati alle prese con problemi materiali, che in passato erano anzi più gravi e pressanti di oggi, almeno nel nostro paese. Semmai, quindi, dovrebbe essere vero il contrario: poiché il benessere non è mai stato tanto diffuso, la nostra epoca dovrebbe risultare soltanto meglio disposta delle precedenti alla degustazione del bello, in ogni sua forma, e quindi anche alla lettura della poesia. E in un certo senso, si badi, è davvero così: mai una parte tanto cospicua della popolazione ha avuto tanto tempo libero e tante risorse fisiche e psichiche da dedicare ad attività ricreative e culturali. Se insomma "poetico" è il contrario di "prosaico", e se il "prosaico" si identifica con il campo delle necessità pratiche ineludibili, da cui è bandita ogni componente di fantasia, di spiritualità, di gratuità, di gioco, ebbene, non è mai esistita un'epoca più poetica della nostra. Naturalmente è solo una boutade, sappiamo tutti che le cose stanno diversamente. Ma per quale ragione? Non certo perché lo sviluppo economico in sé sia nemico delle arti, o perché il benessere corrompa il gusto collettivo, come un moralismo illustre ma datato potrebbe indurci frettolosamente a concludere; tanto più che poi occorrerebbe inoltrarsi in una quantità di spiegazioni e di valutazioni ulteriori, oltremodo impegnative e assai poco controllabili, circa i rapporti fra la 6 prosperità materiale e il fiorire delle arti. È quindi più prudente attenersi alla sensazione da cui eravamo partiti. Vediamo di chiarirla meglio. Gli atteggiamenti di perplessità e imbarazzo verso la poesia in quanto tale sono tipici della modernità, e dipendono in ultima analisi dal mutato ruolo sociale della poesia. È un fatto che in passato - quando, esattamente, non importa - la poesia aveva un'importanza molto maggiore di oggi. Non che i poeti abbiano mai deciso delle sorti dell'umanità, Disegni di Davld Scher. s'intende. Ma è esistito un tempo, che forse si è protratto fino a un'epoca non troppo distante dalla nostra, in cui la poesia veniva comunemente avvertita (e sia pur solo da alcuni gruppi sociali) come il centro dell'universo della parola. La poesia costituiva la quintessenza del linguaggio: non solo il · suo stato privilegiato, la sua manifestazione più significativa e propria, ma, in qualche maniera, la sua dimora elettiva. Esisteva, nella coscienza collettiva, l'idea di un paradiso della parola, dove la poesia abitava. Oggi quest'idea si è quasi completamente dissolta. Da un lato, perché nel dominio verbale le gerarchie si sono alquanto indebolite, facendosi nel tempo sempre più malcerte, precarie, reversibili; dall'altro, perché la poesia ha ceduto una buona parte della sua autorità e del suo prestigio alla prosa. È accaduto così che, esiliata

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