Linea d'ombra - anno VI - n. 33 - dicembre 1988

IL CONTESTO campi della seconda guerra mondiale ha preso coscienza di sé, e soprattutto analisi dei meccanismi del ràzzismo. Tutto rivolto verso l'interno, l'oggi, le contraddizioni degli stati africani, è invece Zan Boko di Gaston Kaboré, Burkina Faso, visto a Torino. Il suo bell'esordio Wend Kfuni era tutto radicato in un'intatta tradizione, nelle sue forme di vita e di narrazione orale; qui, invece, punta su una forma più normalizzata, ma conservando una sua orizzontalità attraverso un realismo minuzioso, visivo, di gesti, lavori, riti, cibi, piccoli fatti quotidiani, il corso di una vita. Ma a poco a poco segnali vieppiù allarmanti introducono al vero grande tema: l'urbanesimo selvaggio che distrugge le forme di vita tradizionali, "umane", e, dietro questo "sviluppo", una borghesia nera rapace e corrotta e autoritaria. Il merito di Kaboré è quello di esserè estremamente diretto, di non trincerarsi dietro mediazioni e distinguo. La tavola rotonda televisiva che viene bruscamente interrotta dall"'alto" quando prende la parola il contadino espropriato e cacciato dalla sua casa, ed è sostituita con una telenovela sui luoghi di sogno della Costa Azzurra, è un capolavoro di ferocia grottesca e polemica. Oltre il discorso sulle for, me, un adeguamento (tecnico, almeno) a un modo di raccqntare occidentale che i registi africani · sembrano ritenere_oggi necessario, è come sempre questione di radicalità. E Kaboré non gira attorno alle questioni di fondo. È aspro come il suo proletario protagonista che bene riassume la situazione, "sono riusciti a rendermi inutile nella terra dei nostri antenati", e conclude senza mezzi termini sulla nuova classe dirigente: "tra loro e noi non ci sarà mai pace". Appunto, ed è la nostra seconda convinzione, il cinema ha ancora un senso e una sua forza laddove, per condizioni marginali, per intensità di esperienze personali o intellettuali, si sottrae al cerchio dell'innocuità, artistica o eccentrica che sia, e ritrova un' attualità del bello, di evento non da cineteca ma che coinvolge lo spettatore, lo spinge a riflettere sul suo modo di stare al mondo. È ciò che salva anche un film pieno di scompensi come De bruit et de fureur di Jean-Claude Brisseau, un ex-insegnante, con la sua commistione di stili, referto sociologico, fiaba, tragedia, av12 ventura iniziatica, con il suo insieme di riferimenti, Shakespeare e Faulkner, Vigo e Genet, con la sua fiducia umanista nel recupero pedagogico, ma anche quadro impressionante di disgregazione delle banlieues, spazio chiuso nella sua ferinità per gli adolescenti, che ha suscitato in patria accese discussioni per le sue "esagerazioni". . La pedagogia sembra la chiave con cui tanti giovani cineasti entrano in rapporto con il reale, ne mettono in discussione sclerosi e morali, ma, come Chen Kaige, per salutarmente concludere che non esiste una pedagogia, se non quella del "caso", dell'esperienza, quella per cui lui stesso e Ah Cheng, autore del romanzo da cui il suo Re dei fanciulli è tratto, inviati a suo tempo a lavorare in una regione ai confini del Laos, vi scoprono una Cina diversa, vera, contro tutte le intenzioni dei burocrati. E in quella stessa regione è ambientato il suo film, negli anni finali della Rivoluzione culturale. Vi giunge un giovane maestro, scelto misteriosamente dal suo gruppo dopo anni di lavoro manuale. Vi arriva facendosi largo nella foresta con una spada, come a voler sciogliere intrichi. È un viaggio verso l'interno che è scoperta di un'altra Cina come stile di vita e come natura, che pone ih gioco questioni prime. Il rapporto mai davvero mutato tra intellettuali e popolo; il rifiuto di una pedagogia della ripetizione, del copiare, in un paese a lungo abituato ai rituali ripetitivi del libretto rosso; la coscienza delle pesanti eredità, nonostante tutto, della tradizione ("il cielo cambia, ma la morale resta"); il senso della responsabilità individuale; il -valore determinante dell'esperienza (esposto in uno stupendo, e davvero didattico, episodio sull'impossibilità di fare un tema su ciò che si farà domani) e della creatività, sino a.inventare ideogrammi "volgari" (piscio-vacca) che è il suo lascito, dopo essere stato cacciato dalla scuola. Ed è ancor più lui a essere stato educato dagli allievi. È questo ricco sostrato di temi e concreti riferimenti che ne fa qualcosa di più di un ben fatto, ennesimo racconto di educazione, chè dà al film una costante inquietudine, un sotterraneo senso di colpa verso una realtà ben lontana da quella degli slogan e verso la gente, contadini, ragazzi, che la subisce. Ed è ciò che sconvolge il suo apparente, classico realismo, tutto paesaggi cinesi insoliti, tutto ellissi, attacchi nervosi, a scatti, a sincronismi, come di fronte a una realtà cui non ci si può adeguare. È un'analoga urgenza, con meno passione e più lucido, disperato rigore, che permette al polacco Kieslowski, di fare un cinema davvero moderno,. di trovare una forma nuova e adeguata. Il suo Un breve film su/- l'omicidio, per tutta la prima parte, apparentemente descrittiva, di percorsi destinati poi a incrociarsi - un odioso taxista, un giovane sbandato, un brillante avvocato - con la tragica definitività di una metafisica casualità, ha un'immagine scura, buia ai bordi, come ci si muovesse in una realtà senza più definizione. Come se i personaggi, messi a fuoco al centro, fossero provvisorie insorgenze di un clima livido. Dopo il delitto assurdo, un gran pezzo di cinema crudele, di un'estrema meticolosità sino all'insopportabile, le immagini, il nitore, la definizione, la nèutra efficacia dell'azione istituzionale, con un'esecuzione del giovane di simmetrica crudeltà. Quello di Kieslowski è un film di una nera, estrema disperazione, come di chi non ha più nessuna illusione. E proprio per questo di una moralità radicale, dostoevskiana, come di chi con esti A Chintara Sukapatana in Good Morning, Vietnam. senzialità e giusta violenza espressiva mira diritto alle ragioni prime, a una condizione fatta all'uomo. E allora assume tutta la sua forza polemica sottesa al film sulla pena di morte, religiosamente improntata a uno dei comandamenti, sì che beffardamente può rovesciare sulla società polacca, in una condanna definitiva, un principio di Lenin: "Da Caino in poi, nessuna pena ha raggiunto il suo scopo". NOIDONNE Dicembre 1988 GrandangoSloe:ssoelavoro Prostituatennni ovanta Ildono diBiancamaFrira botta ElezionUisal:edonne Legendaria, supplemento dilibrei percorsi dilettura S0CIABB0NA TI! Versamento dilire115.000 sule/en.60673001 intestatao Cooperativa LiberaStampa, viaTrinità deiPellegrin1i2, 00186Roma, Telefon0o6/68645626864387

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