In alto: Good Morning, Vietnam di Levinson. Al centro: L'ultima tèntazione di Cristo di Scorse se. In basso: De bruit ed de fureur di Brisseau. il film,sorpresa (Good morning, Vietnam), il film-evento (Chi ha incastrato Roger Rabbitt, diretto da Zemeckis all'ombra di Spielberg e destinato al nostro Natale). Del film di Scorsese ormai non è quasi più possibile_parlare, dop6il grande carnevale mediologico. Ha costretto tanta gente a discutere di questioni teologiche di cui non gli frega nulla. In realtà, Scorsese intendeva fare un piccolo (anche nel budget) film personale. Ha trnvato nel libro di Kazantzakis (un autore che aveva già ispiratò a Dassin, nel '57, Colui che deve morire, .su un Cristo moderno) lo spunto per una sorta di autobiografia appena mascherata, per una libera riflessione su temi.che lo coinvolgono profondamente. Non a caso, autore di riuscitissimi film "eristici" da Mean Streets a Taxi driver, a Toro scatenato, coi loro eroi notturni e santi falliti, con la loro vocazione al martirio. Non a caso, e soprattutto interessato alla natura umana di Cristo, ai dilemmi dell'esistenza, purtroppo questa volta senza De Niro e con un flaccido Dafoe-Cristo. E forse era un film troppo "senti- . to" e· covato, riuscito in certe fulminee "immagini" (Pilato e il cavallo), nelle parti più libere come il lungo sogno sulla Croce. E soprattutto ha fatto un film molto americano. Sia nei suoi aperti riferimenti a un immaginario cinematografico e ai suoi "generi", l'horror della mano di Lazzaro o di Cristo che si strappa il cuore dal petto. Sia nel suo toccare nel vivo le matrici religfose della società ame- · ricana, ·quelle utopiche di salvezza mistica •come quelle cialtronesche dei predicatori televisivi. E anche per il Vietnam, dopo oltre novanta film "seri", è giunto il tempo se non di un vero film comico, della commedia beffarda. Anzi, per il suo Good Morning, Vietnam, Barry Levinson sceglie intelligentemente una strada a mezzo tra la farsa alla Mash, che parlava della Corea e già alludeva al Vietnam, e il turpiloquio delirante e monologante alla Lenny. Lasciamo stare i buoni intenti di una cattiva coscienza esagerata, di mostrare vietnamiti e vietcong dal volto umano, ché per questa strada non si va troppo in là. Appena aggiornati, siamo sempre a La buona terra anni Trenta; i gialli sono sentimentali, semplici, gioIL CONTESTO cherelloni, infidi. La forza di Levinson è nell'uso delle potenzialità trasgressive del turpiloquio· (e del rock basso), nell'opporre alla "follia" della guerra vietnamita la follia verbale, scatenata, irriverente, la vitalità prorompente, la libertà soldatesca di questo dee-jay della radio delle forze armate di Saigon, màniaco sessuale, residuato della cultura hippy, trovandovi un grande interprete in Robin Williams, un po' Groucho Marx un po' Benigni di fuochi d'artificio verbali e sarcasmi. In Africa è in atto una svolta. Dimenticati gli arcaismi tecnici, formali, antropologici, quel cinema imperfetto che ne aveva fatto il fascino di cinema delle origini, delle radici, della diversità, ma anche aveva alimentato in occidente una sorta di "tarzanismo culturale", è arrivata !'"era del professionismo", degli scontri e delle scelte vere. E la strada scelta, e non entusiasmante, sembra essere quella del vecchio film di denuncia con la sua immediatezza ma anche i suoi schematismi. Poi, però, bisogna distinguere. A Venezia, ha riscosso consensi e premi Campo di Thiaroye dei senegalesi Ousmane Sembène e Thierno Faty Sow, il primo uno dei padri del cinema africano. Film lineare nella sua fluvialità, ricostruisce un "normale" fatto dì razzismo, a suo tempo cantato da LeopoId Senghor, di cui ha già parlato Fabio Gambaro nello scorso numero della rivista. Un linguaggio "semplice", popolare, con i suoi toni di commedia che si rovesciano infine in tragedia, un gustoso parlato in francese indigeno, i personaggi dei soldati articolati con cura, senza, però, uscire da una tipizzazione e simbolismi scontati, ufficiali francesi rigidi e ignoranti a eccezione del solito riformista (l'umanesimo della cultura) destinato alla sconfitta, alcune scene corali di gran respiro epico in cui Sembène sembra più a suo agio: insomma, una certa "autenticità" umana sotto l'inevitabile retorica e il tono didascalico, un canto dell'orrore coloniale, un riappropriarsi della propria storia che non riserva sorprese, né riapre dialettiche inedite. Un film forse più utile, anche per le sue notevoli dimensioni produttive, per l'esportazione, affermazione di un'identità culturale e politica, quella del "sangue nero" di testimoni e martiri di un'Africa che sui 11
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