DICEMBRE1988 - NUMERO33 - SPECIALEINVERNO- LIRE8.000 I arie, immagini, discussioni
Leggere Einaudi HenryJames Raccondti fantasmi La raccolta completa del «soprannaturale» di J ames. Con un saggio di Virginia Woolf. A cura di Leon Edel. Edizione italiana di Maria Luisa Castellani Agosti. Traduzione di Maria Castellani Agosti, Fausta Cialente, Carlo Izzo. · pp. xvrr-687 con 16 illustrazioni fuori testo a colori, L. 65 ooo Italiamagica Raccontsiurrealie novecenteschi sceltiepresentatdi aGianfrancoContini Palazzeschi; Baldini, Lisi, Zavattini, Morovich, Landolfi, Bontempelli: una straordinaria antologia di racconti italiani all'insegna della sensibilità magica in letteratura. «Supercoralli», pp. v-254, L. 26 ooo GuidoCeronetti Aquilegia Una favola ripropone il mito del viaggio alla ricerca della verità nascosta. In "appendice colloquio con l'autore di «Aquilegia» di Tazia Nuvolati. «Supercoralli», pp. 237, L. 24 ooo .-DelioTessa Oredicittà Figure, momenti, scorci della vecchia Milano nella prosa di un grande poeta. A cura di Dante Isella. «Supercoralli», pp. x-225, L. 26 ooo WilliamLeast-Heat-Moon Stradeblu .Un« pellerossa» sulle strade di un'America minore. Un romanzo di incontri imprevedibili, un EasyRider degli .anni '80. Un milione e 500 mila copie vendute negli USA «Supercoralli», pp. 509 con 23 fotografie nel testo, L. 35 ooo Louis-FerdinaCnédline Normance Parigi in guerra nella lanterna magica di un delirio narrativo. L'ultimo Céline che ancora mancava in Italia, tradotto da Giuseppe Guglielmi. «Supercoralli», pp. vn-269, L. 26 ooo Christophelsrherwood LaviolettadelPrater «Isherwood è il miglior narratore di lingua inglese» (Gore Vidal). «Supercoralli», pp. x-119, L. 18 ooo WilliamGerhardie Futilità Una Russia febbriie e fatiscente, un seduttore nei guai, una serie di contrattempi tra il balletto · e il melodramma. Un romanzo inglese degli anni '20 di raro divertimento. Traduzione di Gianni Celati. «Supercoralli», pp. 223, L. 22 ooo Successi: lanMcEwan Bambinnieltempo· Una bambina rapita è vanamente cercata attraverso i percorsi della memoria: il nuovo romanzo del piu sottile e inquietante scrittore inglese di oggi. · · Traduzione di Susanna Basso. «Supercoralli», pp. 219, L. 22 ooo PremioViareggio1988 PremioSupercampiell1o988 RosettaLoy Lestradedipolvere « ... a essere onesti bisogna avere il' coraggio di dire con semplicità che è un capolavoro» (Antonio Porta, «Panorama»). Sesta edizione, 90 ooo copie. «Supercoralli», pp. 245, L. 20 ooo PremioComisso1988 SebastianVoassalli L'orodelmondo « ... una libertà d'invenzione e un procedimento naturale, quale è proprio dei narratori autentici» (Carlo Bo, «Corriere della Sera»). «Supercoralli», pp. 175, L. 18 ooo 'NicoOrengo Ribes Il romanzo dell'Italia televisiva. «Una satira divertita, dal tocco lieve ma sempre sicuro, della provincia italiana» (Maria Corti «la Repubblica»). «Supercoralli», pp. 236, L. 24 ooo PremioCalabria1988 FabriziaRamondino: Ungiornoemezzo Il romanzo di una generazione e di una città.« Un'autentica scrittrice, un libro ironico e patetico» (Giovanni Giudici, «L'Espresso»). «Supercoralli», pp. 219, L. 22 ooo ' SalvatoreMannuzzu Procedura Nei mesi del sequestro Moro, un giudice affronta in solitudine un caso giudiziario e l'indifferenza del suo ambiente. Un nuovo narratore presentato da Natalia Ginzburg. «Nuovi Coralli», pp. 216, L. 14 ooo
Direi/ore Goffredo Foti Direzione editoriale Lia Sacerdote Gruppo redazionale Adelina Aletti, Giancarlo Ascari, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Stefano Benni, AVonso Berardinelli, Paolo Bertinetti, Gianfranco Bettin, Franco Brioschi, Marisa Caramella, Cesare Cases, Grazia Cherchi, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenzo Consolo, Alberto Cristofori, Stefano De Matteis, Riccardo Duranti, Bruno Falcetto, Fabio Gambaro, ·Piergiorgio Giacché, Aurelio Grimaldi, Giovanni Jervis, Filippo La Porta, Gad Lerner, Marco Lombardo Radice, Marcello Lorrai, Maria Maderna, Luigi Manconi, Danilo Manera, Edoarda Masi, Santina Mobiglia, Maria Nadotti, Antonello Negri, Cesare Pianciola, Gianandrea Piccioli, Bruno Pischedda, Giuseppe Pontremoli, Fabrizia Ramondino, Alessandra Riccio, Roberto Rossi, Franco Serra, Marino Sinibaldi, Paola Splendore, Gianni Turchetta, Emanuele Vinassa de Regny, Gianni Volpi, Egi Volterrani. Progello Grafico Andrea Rauch/Graphiti Ricerche iconografiche Carla Rabuffetti Relazioni pubbliche: Miriam Corradi Esteri: Regina Hayon Cohen Amministrazione: Emanuela Re Hanno inoltre collaborato a questo numero: Enrico Alleva, Andrea Aloi, Filippo Azimonti, Franco Cavallone, Carlo Cecchi, Giorgio Ferrari, Edoardo Fleischner, Cesare Garboli, Giovanni Giovannetti, Giuliano Macchi, Paolo Mereghetti, Daniele Morante, Stefano Moretti, Domenico Porzio, Tonino Ricchezza, Marco Rossi Doria, Vanni Scheiwiller, Luisa Saraval, Stefano Velotti, Raffaele Venturini, le librerie Feltrinelli di via Manzoni e Popolare di via Tadino t'8 a Milano. Editore Linea d'Ombra Edizioni srl Via Gaffurio, 4 - 20124 Milano Tel. 02/6690931-6691132 Fotocomposizione e montaggi multiCOMPOS snc Distribuzione nelle edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. Via Famagosta, 75 - Milano Tel. 02/8467545-8464950 Distribuzione nelle librerie POE - Viale Manfredo Fanti, 91 50137 Firenze - Tel. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Puccini, 6 Buccinasco (MI) - Tel. 02/4473146 LINEA D'.OMBRA mensile di storie, immagini, discussioni Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393 Direttore responsabile: Goffredo Foti Sped: Abb. Post. Gruppo lll/70"7o Numero 33 - Lire 8.000 Abbonamenti Abbonamento annuale: ITALIA: L. 50.000 da versare a mezzo assegno banèario o c/c postale n. 54140207intestato a Linea d'Ombra ESTERO: L. 70.000 I manoscrilli non vengono restituiti Si risponde a discrezione della redazione. Si pubblicano poesie solo su richiesta. N.B. Di alcuni testi non abbiamo rintracciato i detentori dei diriui. Ce ne scusiamo, pronti ad olfemperare ai nostri obblighi. Questa rivista è stampata su carta riciclata. UNEA D'OMBRA anno VI dicembre 1988 numero 33 IL CONTESTO , 4 6 13 14 20 23 26 27 Giuseppe Pontremoli Mario Barenghi · Joaquìn Sokolowicz Piergiorgio Giacchè Vincenzo Colline/li José Bergamìn Tahar Ben Jelloun Maria Schiavo Bambini e Bambinologi Non leggere poesia Il debito estero in America Latina (Continua) Il signor Kafka, assicuratore Aforismi Le mie due mogli Divagazioni sulla mendicità RUBRICHE: Letture (G. Fofi su Brandys, West, K. Mann, ecc. a pag. 8), Cinema (G. Volpi sui migliori film dell'anno a pag. 10), In margine (G. Cherchi a pag. 18), Confronti (G. Bertìnetti su J.R. Ackerley a pag. 24; A. Baricco su J. Saramago a pag. 24), Incontri (con A ..Bryce Echenique a cura di A. Riccio a pag. 28), Musica (M. Lorrai su Nina Simone e altri a pag: 29; G. Armani sul Rossini di A. Baricco a pag. 30), Promemoria (a pag. 32). POESIA 35 Ted Hughes STORIE 44 63 67 77 78 80 82 84 88 Bob van den Born Juan Rulfo L.F. Céline Joao Guimaroes Rosa O. Henry lgnacio Aldecoa Salvatore Puglia Edward Band Marcello Gallian INCONTRI 54 Theodor W. Adorno Arnold Gehlen Moortown a cura di Maria Stella Il professor Pi Due racconti postumi a cura di Fabio Rodriguez Amaya Arletty, fanciulla del Delfinato seguito da "li viaggio" al cinema Nascita Il dono dei Magi Un racconto dell'Epifania Un'anima del Purgatorio, Messa nera Mutato in cavallo (Ricordi) a cura di Paolo Buchignani La sociologia è una scienza dell'uomo? NARRARELAS(:IENZA 73 John Dewey L'etica della sperimentazione sugli animali a cura di E. Alleva e E. Visalberghi SAGGI · . 40 47 94 Virginia Woolf Middlebtow Indice dei numeri arretrati Gli autori di questo numero Sulla copertina di questo numero Elsa Morant.e in una foto di Christian Heynold.
ILCONTESTO Cari amici, abbiamo voluto fare un .numero di fine anno degno della vostra attenzione, riunendo saggi e poesie, racconti e interventi di valore evidente - a cominciare dal- / 'incontro tra Gehlen e Adorno (uno dei "maestri" meno amati da questi anni televisivo-pubblicitari) e dall'intervento di Virginia Woolf, ancora più pertinente e attuale. Ma ci sono anche i testi di Rulfo, di Céline (ecco un autore su cui contiamo di tor- . nare, su cui vale la pena di tornare), i "racconti di Natale" (in una gamma certo . varia, ma forse meno incoerente di quanto possa sembrare a prima vista, almeno nei contenuti!), le poesie di Ted Hughes, le avventure del professor Pi, le riflessioni di Dewey sulla vivisezione ... e tante altre cose ancora ... E, per finire, la nostra plaquette "per Elsa", che è l'omaggio a una grande scrittrice (che, finché poté, fu collaboratrice e sostenitrice della rivista) e un nostro omaggio ai · lettori, immaginato e realizzato nella certezza di un interesse o di un amore comuni. Il 12 dello scorso mese c'è stato a Milano ilp_iccoloconvegno su Capitini organizzato da "Linea d'ombra" e da "La nuova corsia", che verrà ripetuto a Roma in un futuro molto prossimo. Le relazioni verrannopubblicate in un dossier che stiamo preparando per il numero di febbraio. E tra le altre (molte) novità in arrivo - oltre quella che molto ci occupa e preoccupa degli opuscoli della collana "Aperture", ormai sul piede di partenza - eccone un'altra che vi annunciamo per tempo e che vedrà la luce tra marzo e aprile: un "supplemento spettacolo" (cinema, teatro, musica e altro) cui stiamo pensando da tempo, molto selettivo e, si spera, "autorevole". In mancanza di testate convincenti, e in sfiducia verso le pagine dei quotidiani/ settimanali. Molte cose stanno germogliando. Nonostante tutto, noi ci muoviamo, e speriamo di non dover restare soli! E dunque, Buon Anno a Voi e anche a Noi! Bambini e Giuseppe La triste spocchia della La necessità le immagini generiche e Al tempo dei tempi, molto lontano da qui, nel Reame della Mistificazione, viveva la principessa Pedagogia. Triste e · spocchiosa, aveva un solo scopo nella vita: diventare regina. Per questo, dopo aver fatto fuori tutti i bambini, trascorreva i suoi giorni di brama a guardare soltanto il Bambino, un essere fatto di niente, acquoso e amorfo, molliccio, mollusco, che poteva esser visto soltanto inforcando occhiali che ne avessero stampata sulle lenti la pur improbabile sagoma. Eh, no, non funziona. Le fiabe sono vere, e qui c'è invece una doppia solenne menzogna: il "tempo dei tempi" e il "molto lontano da qui". Perché invece il Reame, e la Principessa, sono qui, qui e ora. Ma soprattutto le fiabe sono avvincenti e piene di fascino, e questo è decisivo per non andare più oltre. E allora lasciamo perdere, e vediamo piuttosto i bambini. Perché? Perché sì. E poi perché avendo a che fare ogni giorno con loro se ne vedono tanti, ma mai un Bambino, e si scoprono in loro mille bisogni, e poi desideri, folate impetuose di voglie. E avere a che fare ogni giorno con loro non è senza eco, e insegna qualcosa. Ad esempio, che forse i nemici più grandi sono il Mito e la Mistica, quando invece sarebbe sufficiente guardarli, i bambini. E infatti le cose più chiare su loro le han viste e le han dette coloro che hanno guardato i bambini e le cose d'intorno. Il più delle volte da fuori dai luoghi deputati; o anche dentro, ma lavorando fitto per intrecciarlo al fuori, questo dentro. Scriveva Alfredo Rasori, in Piano di lavoro di un maestro, Pratiche, 1978: "La prima storia della pedagogia che uscirà in Italia dovrà passare da Seveso, e ricordare che il fiume Seveso straripò a Milano. C'è più pedagogia nella cloracne che non nei biforcuti decreti delegati". Ma fuori o dentro ha ben poca importanza: ciò che è decisivo è guardare con gli occhi e guardare lontano. E così, allora, non ci si potrà affidare ai Bambinologi, ma piuttosto ad altri, indefinibili, che però dei bambini si sono accorti davvero. Nonbambinologi, dunque, nonpedagogisti. Come Elsa Morante, come Tolstoj, come Bilenchi, Henry Roth, Don Milani, Guimaraes Rosa. O come Montale, che coi bambini non ha avuto molto a che fare ma ha scritto Ùna poesia che ci dice più cose sull'infanzia di quante non ne dicano tanti volumi di cui si nutre la famosa Principessa. "I bambini sono teneri I e feroci. Non sanno I la differenza che c'è I tra un corpo e la sua cenere. I I I bambini non amano I la natura ma la prendono". ( Un mese tra i bambini, in Satura). Oppure come Rocco Scotellaro: "Con la neve si para la tagliola I e si aspettano i gridi dei fringuelli. I La maestra ai bimbi della scuola I legge un verso d'amore per gli uccelli. I Mi piacevano i versi e la tagliola". (/ versi e la tagliola, in Quaderno a cancelli). Ci si potrebbe anche fermare qui, perché questi due soli esempi sono molto utili anche per lottare contro le anime belle che si sbrodolano svolazzando sulle ali della pretesa "innocenza" dell'infanzia e delle relative "poesia" e "dolcezza"; ali ben fragili, rette solamente dai fiati della Sinfonia della Mistificazione. Ali utili non di certo al volo ma solamente appunto allo svolazzo, e la cui consistenza è esattamente quel-
bambinologi Pontremoli principessa Pedagogia. di ridiscutere · di comodo dell'infanzia. la che caratterizzava i vestiti dell'imperatore della fiaba di Andersen. Si, è necessario lottare contro, con passione e vigore, per qualcosa; anche per i bambini, anche con i bambini, anche da bambini. Contro l'oppressione, ad esempio, contro la mistificazione e la violenza, la resa ali' esistente; contro la distruzione ·della terra e del cielo; per vivere davvero - alberi, bestie, persone. Per vivere davvero e quindi volare, dentro le cose, verso l'utopia, che è una metà da porsi se non ci si vuole preventivamente privare di senso. Ma l'utopia può essere anche un alibi, consapevole o rrieno che sia, per sancire un rinvio senza fine, volando non tanto dentro al mondo quanto piuttosto sopra - e questo potrebbe anche servire a qualcuno per fargli credere di salvarsi l'anima, ma non potranno essercene di anime salve se non sarà salvato il mondo intero. Foto di Giovanna Piemonti dal suo Il potere ai bambini, Magma 1974. In diverse occasioni, da più parti, ·si parla di educazione ambientale, di educazione alla pace, di nonvioleI1za. Ottima cosa, in sé, rria debole ed equivoca se non supportata, ad esempio, dal parlare - come diceva Brecht - "di rapporti di proprietà''. Ottima cosa, in sé, la pace, ma non basta che non scendano bombe; Ottima cosa, in sé, la nonviolenza: ma· che cos'è? È un mezzo? È un fine? È la separazione tra i fini ed i mezzi non è forse uno stato di guerra, un'oppressione violenta? In Bambini e nonviolenza (Edizioni Gruppo Abele, 1987), Silvia Bonino sostiene che, al contrario dei modelli educativi autoritari e permissivi, che sono sorgenti rigogliose di aggressività distruttiva, "il modello educativo che genera comportamenti meno aggressivi è quello autorevole, che non evita al bambino ostacoli, regole e punizioni, ma in un clima di affetto e valorizzazione, in cui il bambino può provare ad affermare se stesso ed elaborare attivamente strategie creative di superamento delle frustrazioni che incontra." È vero e va bene, ma qui il famoso asino casca un'altra volta: quanta autorevolezza emana dalle contrazioni del viso di chi ansimi e arranchi nello sforzo di competere per chissà che prestigio? Quanta autorevolezza c'è nel cinismo? Quanta nel pallore che attornia le labbra che sanno aprirsi solo a dire sì? Quanta nell'arroganza? E nei fischi delle gomme sull'asfalto? Quanta nei sorrisi che non sanno insinuarsi tra le risate stridule da iena e i silenzi torvi? E il paesaggio è proprio questo. Ancora una volta, oggi più che mai, i bambini sono soli. Eppure si potrebbe forse proprio imparare da loro, a essere nonviolenti. Da loro, che hanno comunque bagliori negli occhi: sia quando guardano i fiori sia quando li schiacciano perché la capriola e la corsa gli urlano dentro; sia quando par- !ano con il cane o il gatto perché non è altro che un amico vero sia quando fanno gli esperimenti per scoprire se è vero che il gatto cada sempre sui piedi; senza pensare ad amare la natura ma semplicemente prendendola, con tutta la gioia che questo comporta che è il.modo migliore di rispettarla: vivi nel vivo. Perché è forse questa la nonviolenza: essere vivi nel vivo, con il sé che non fugge e s'intreccia ai dintorni - alberi, bestie, persone. Perché è qui che potrebbero saldarsi i mezzi e. i fini. In quello straordinario racconto che è Miguilim, ripubblicato da Feltrinelli nel 1984, Joào Guimaràes Rosa parla anche di due bambini, Miguilirri e suo fratello Dito, e racconta che "la Rosa una volta disse che Dito era un'animuccia che vedeva il cielo dietro la collina, e per questo destinato a non rimanere per molto tempo qui. E disse che Dito parlava con ogni perso·na come se fosse una, differente; ma che gli piacevano tutte, come se tutte fossero uguali". Sì, forse i bambini, già qui e ora, potrebbero anche rimescolare le carte· dei rapporti tra uguaglianza e differenza, non avessero conti letali da fare - coi modelli educativi, con le istituzioni, con la biologia e la storia. E così Dito è morto, e seguita a morire, come quel combattente di una poesia di. Vallejo. Seguita a morire anche quando gli si avvicina un uomo e gli dichiara il suo amore, anche quando gli si avvicinano in due, in venti, in cento, mille, milioni d'individui. " ... ma il cadavere seguitò a morire. // Allora tutti gli uomini della terra / lo circondarono; li vide il cadavere triste, emozionato: I si drizzò lentamente, I abbracciò il primo uomo, si avviò ... " 5
IL «;ONTESTO Non leggere poesia Mario Barenghi La poesia come memoria: cir,a modesta proposta èontro la tendenza, per sfuggire al fracasso del presente, a rinchiudere la poesia in una nicchia preziosa e forse superflua. Io leggo poco, molto meno di quanto vorrei, non solo, ma molto meno di quel che dovrebbe decentemente fare chi abbia la pretesa di_occuparsi di letteratura. Ciò dipende da vari motivi, che naturalmente non interessano nessuno; c'è tuttavia in questo fenomeno un risvolto che mi preme segnalare, perché non credo riguardi me solo. Si tratta di questo. In genere, della scarsità delle mie letture io mi vergogno e mi rammarico, per ogni campo: per la narrativa, la saggistica, la divulgazione scientifica, perfino (a volte) per l'informazione libraria. Per la poesia, invece, no. Fra i pochi lìbri che leggo, di poesia ce ne sono pochissimi, sempre meno: eppure non riesco a sentirmene colpevole. Mi sembra che questa circostanza non dipenda (non principalmente, almeno) da mie manchevolezze: dalla mia ottusità, dalla mia pigrizia, dal cattivo uso del tempo e del cervello. Mi sembra, in altre parole, che qui si nasconda un fatto di rilievo generale, degno di riflessione e forse importante (che poi, fra le varie cose che m'ingegno di fare, sia degna di riflessione una cosa che non faccio, è un'altra questione squisitamente privata). Non vorrei essere frainteso. Non è alla poesia contemporanea che mi riferisco, ma alla poesia in genere; non è quindi mia intenzione esprimere, neanche iq forma velata, un giudizio critico negativo sulla produzione poetica attuale, Inoltre, non sono affatto fiero di non leggere poesia: tutt'altro. Vorrei essere in grado di farlo, sinceramente, così come· vorrei ascoltare musica più spesso; ma l'una cosa e l'altra mi riescono sempre più difficili. Quanto segue è un primo tentativo di chiarirne le ragioni. È assolutamente chiaro, tanto per cominciare, che il (mio: ma non solo) disagio di fronte alla poesia non dipende affatto da un presunto carattere prosaico o impoetico della realtà in cui viviamo. Gli uomini sono sempre stati alle prese con problemi materiali, che in passato erano anzi più gravi e pressanti di oggi, almeno nel nostro paese. Semmai, quindi, dovrebbe essere vero il contrario: poiché il benessere non è mai stato tanto diffuso, la nostra epoca dovrebbe risultare soltanto meglio disposta delle precedenti alla degustazione del bello, in ogni sua forma, e quindi anche alla lettura della poesia. E in un certo senso, si badi, è davvero così: mai una parte tanto cospicua della popolazione ha avuto tanto tempo libero e tante risorse fisiche e psichiche da dedicare ad attività ricreative e culturali. Se insomma "poetico" è il contrario di "prosaico", e se il "prosaico" si identifica con il campo delle necessità pratiche ineludibili, da cui è bandita ogni componente di fantasia, di spiritualità, di gratuità, di gioco, ebbene, non è mai esistita un'epoca più poetica della nostra. Naturalmente è solo una boutade, sappiamo tutti che le cose stanno diversamente. Ma per quale ragione? Non certo perché lo sviluppo economico in sé sia nemico delle arti, o perché il benessere corrompa il gusto collettivo, come un moralismo illustre ma datato potrebbe indurci frettolosamente a concludere; tanto più che poi occorrerebbe inoltrarsi in una quantità di spiegazioni e di valutazioni ulteriori, oltremodo impegnative e assai poco controllabili, circa i rapporti fra la 6 prosperità materiale e il fiorire delle arti. È quindi più prudente attenersi alla sensazione da cui eravamo partiti. Vediamo di chiarirla meglio. Gli atteggiamenti di perplessità e imbarazzo verso la poesia in quanto tale sono tipici della modernità, e dipendono in ultima analisi dal mutato ruolo sociale della poesia. È un fatto che in passato - quando, esattamente, non importa - la poesia aveva un'importanza molto maggiore di oggi. Non che i poeti abbiano mai deciso delle sorti dell'umanità, Disegni di Davld Scher. s'intende. Ma è esistito un tempo, che forse si è protratto fino a un'epoca non troppo distante dalla nostra, in cui la poesia veniva comunemente avvertita (e sia pur solo da alcuni gruppi sociali) come il centro dell'universo della parola. La poesia costituiva la quintessenza del linguaggio: non solo il · suo stato privilegiato, la sua manifestazione più significativa e propria, ma, in qualche maniera, la sua dimora elettiva. Esisteva, nella coscienza collettiva, l'idea di un paradiso della parola, dove la poesia abitava. Oggi quest'idea si è quasi completamente dissolta. Da un lato, perché nel dominio verbale le gerarchie si sono alquanto indebolite, facendosi nel tempo sempre più malcerte, precarie, reversibili; dall'altro, perché la poesia ha ceduto una buona parte della sua autorità e del suo prestigio alla prosa. È accaduto così che, esiliata
dal cuore dell'universo linguistico, la poesia si sia trovata a occupare solo una nicchia del sistema letterario: una nicchia preziosa, forse, ma appartata, e tendenzialmente marginale. Questa perdita di centralità si è riverberata sulla fruizione della poesia più antica. Noi leggiamo ancora Leopardi e Petrarca, Baudelaire e·Montale, Orazio e Shakespeare, ma in modo ben diverso da come faremmo, se la nostra lettura fosse condizionata e, per dir così, guidata da una viva familiarità con le espressioni poetiche dei nostri giorni. Li leggiamo ancora, ma in maniera differente: ora sospesa e astratta, ora storicizzante ed erudita, ora strettamente proiettiva e idiosincrasica, e quiridi, a seconda dei casi, o straniata o evasiva. Di qui la sensazione di disagio di cui si diceva sopra. Venendoèi a mancare un contatto sicuro con le letture degli altri - che può essere garantito solo dalla frequentazione comune della poesia attuale, intesa nel suo carattere di istituto sociale ,e letterario - corriamo costantemente il rischio, anche leggendo gli autori e i testi più classici, di caverne un'esperienza irrelata e gratuita, e perciò arbitraria, inconcludente: poco più che un'innocente mania o una piccola nevrosi, un hobby, insomma. D'altro canto, è naturale che chi non voglia adattarsi a questo stato di cose, a leggere poesia faccia sempre più fatica. Non perché la Iettùra di una raccolta di versi sia in linea di principio più impegnativa della lettura di un romanzo - questo è ovvio - ma perché è difficile indovinare come leggerla: trovare il modo giusto, la giusta intonazione. Esiste ancora una giusta intonazione per leggere poesia? Ecco, questo è il punto. La poesia dovrebbe innanzi tutto essere letta ad alta volce: il suo legame con la cultura e l'espressione orale è costitutivo e intrinseco, e la stessa lettura mentale ne risente, mimando o ripercorrendo le cadenze 1/ e i ritmi della recitazione viva. Ma ciò significa anche un'altra cosa: che la poesia, in quanto tale, presuppone il silenzio. La voce monologante che si leva a scandire il discorso poetico esige la campitura di uno spazio sgombro, pronto ad accoglierne le risonanze, a rifrangerne le vibrazioni, a rinviarne gli echi. Non si tratta, beninteso, di una semplice assenza fisica di suoni, di un vuoto acustico (di cui pure è tanto difficile godere), ma di un silenzio interiore, virtuale: di una sospensione dell'ingorgo linguistico che caratterizza la nostra esperienza verbale quotidiana. Noi viviamo in mezzo a parole che ci pressano e ci urtano, assai più di quanto ci parlino, cioè si rivolgano a noi: e una spontanea reazione difen~ siva ci induce a escluderle, come irrilevanti e fastidiose, dallà nostra coscienza. Ma in tal modo .è inevitabile che l'udito, costretto ad adattarsi a un ambiente ostile, finisca per ottundersi. Degradata a rumore, la tumultuante massa di messaggi da cui siamo ogni giorno assediati, letteralmente, ci assorda; e l'orecchio della mente smarrisce in primo luogo la facoltà di percepire quel silenzio, di cui la poesia necessita IL CONTESTO per germogliare. Nessuna sorpresa allora che non riusciamo a trovare l'intonazione giusta: è la sordità che ci rende stonati. Meglio rinunciarvi, quindi, senza rimorsi. Tacere. Non leggere. E in effetti può darsi che nel mondo odierno per la poesia non ci sia semplicemente più posto: che fra l'universale e chiassosa dissipazione del linguaggio e una pace fittizia, fondata sulla regressiva indifferenza e sull'oblio, non ci sia più posto per il distacco relativo e cosciente propizio a una dicitura netta, autorevole, non effimera e non velleitaria. Sarebbe una deduzione triste, ma non inverosimile; forse lo sospettavamo da tempo, senza osare confessarlo. Ma sinceramente·a me i verdetti drastici piacciono poco, anche perché sospetto sempré che suscitino difficoltà più gravi di quelle che pretendono di risolvere. Proporrò quindi, in via cautelare e interlocutoria,. due conclusioni alternative. ·La prima è di ordine pratico. Se non riusciamo più a leg- . gere poesia, forse è venuto il momento di ricominciare a studiare delle poesie a memoria. La vera "lettura" diverrà allora l'auto-recitazione effettiva, eventualmente a mezza voce: nella quale la fisicità dei suoni e dei silenzi soccorrerà la contaminata acustica mentale, ricreando le condizioni primarie di esistenza del discorso poetico. In fondo la poesia è nata per essere imparata a memoria, per essere declamata e tramandata oralmente: Qualcuno forse obietterà che una buona parte della poesia contemporanea è quasi impossibile da mandare a memoria: ma a costoro non so cosa rispondere. Pazienza. La seconda è connessa alla prima, ma ha una validità più generale. Che la poesia sia nata per esistere nella memoria, significa, ìn altre parole, che la poesia si è istituita come discorso essenzialmente memorabile, in opposizione ad altre forme, occasioni ed evenienze verbali legate alla sfera della praticità o dell'immediatezza. Ebbene, io ritengo che questo carattere della poesia serbi tuttora un'importanza fondamentale, e che meriti di essere, per quanto possibile, salvaguardato. La poesia è innanzi tutto lo spazio istituzionalmente deputato alla coltivazione della memoria verbale: essa può dunque continuare a esercitare una decisiva funzione regolatrice e ammonitrice, anche quando tale spazio rimanga (occasionalmente o meno) vuoto. Rimossa dal centro del~ l'universo linguistico (e non c'è ragione di credere che tornerà presto a .occuparlo), la poesia conserva tuttavia un insostituibile valore di principio, come orizzonte e paradigma di rnemorabilità. Che la produzione poetica attuale sia in grado di onorare pienamente questo compito, non Io darei per certo, ma non importa troppo. Importa invece moltissimo che nella nostra coscienza linguistica, disorientata e logora da quella che è forse la forma più negletta e insidiosa di inquinamento, permanga l'idea di una distinzione. fra ciò che merita e ciò che non merita di essere ricordato, anche parola per parola, e tramandato, cioè comunicato, e non soltanto riprodotto. Di questa idea la poesia può essere la più zelante, la più efficace, la più affettuosa custode. Ma a una condizione: che essa non rinneghi, semplicemente, il volgare fracasso che ci sommerge, postulando un silenzio che non esiste più: giacché questo sarebbe il più facile e opportunistico adattamento a una realtà in fondo davvero "impoetica", cioè pochissimo propensa a distinguere e a ricòrdare, e incline a disciogliere ogni forma di poiesis in una praxis ininterrotta e sinistramente frenetica. Solo in tal modo la poesia - e s'intenda, in primo luogo: la nostra esperienza della poesia - potrà sottrarsi (e sottrarci) all'assordamento, conservando un'autentica ragion d'essere. Al di là delle nicchie, più o meno preziose, che nella sua sagace indulgenza il nostro sistema non nega a nessuno. 7
LETTURE Qualcuno di C\ueilibri dicuinon si r1escemai a parlare GoffredoFofi Civienechiesto qualcosa che possasostituirela preziosa rubrica di Consigli/Sconsigli di GraziaCherchi dato che non basta il ''Promen:oria" (elenco dei titoli cheai nostri redattori sono sernbratinteressantinella produz!onerecentissima,ma f?rs: più significativoper le esclus1om che per le inciusioni)e non bastano neanchelerare recensioni che "Il contesto"ospita, r3!e soprattutt~ per ragionidi spaz10. Sapen?o ~ htnitiche hanno .Jesegna:laz10m veloci,senechiedevenia ~na volta Pertutte, mentre ovv1ame~te nonsenechiedeper certa par21alitào faziositàe la scelta qi par~ laresoprattutto di certi romanzi e raccontie solomolto raramente di saggi dettata da modestia. Ricordoi~tanto, ed è doveroso, chequest'anno è stato particolarl!lentericco di buoni tito_li_italiani,alcunigià qui ~ecens1!1,altn di cui lerecensionisono marrivo(Consolo,Meneghello, M~nnuzzu,ecc.). E che ci app_rest1amo a far partire,da ge~?aio-~eb~ braio una rubrica a pm voci d1 segnaiazionisui tascabili, e una di segnalazionisui libri di scienza. . I piùbelli. Sono ~ue roman~ z1di e/o: variazionipostali d1 KazimierzBrandys, e Signorina Cuorinfranti di Nathanael West. Questosecondoè uscito con l'acc.ornpagnamentodi du7 intervenll, di RiccardoDuranti che lo ha anchetradottoe del sottoscritto, entrambi "di Linea d''ombra". Dunque non ci insisto, ma se i? abbiamo così amato entrambi, Perchénon segnalarlo? West - americanodegli anni Trenta - ha scritto in veloci capitoli densissimila viacrucisdi un piccolo PUritanoamericano con smanie evangeliche,dentroil contesto d7i moderni mediae d1un aggressivo capitalismo.Non s.~~o_le"Signorine cuorinfrant1 , insomma, i "santi" di cui abbiamo bisogno, e la loro sconfitta è obbligata West è importante anche Perché·haelaboratocinquant' anni fa un mododi narrare che coniuga avanguardiae marxis~o. ~ c~e appare a distanza assai pm vitale del cosiddetto modernismo, ridotto per i più a mo8 nologo recitante e lagna psicolabile. Un modo di far romanzo piuttosto inedito è anche quello di Variazioni postali: dal 1770 al 1970 (il romanzo è µscito nel '71), a distanza di trent'anni circa da uno all'altro capitolo - e tr.ent'anni è il periodo giusto per dimenticare, perché il quotidiano si faccia vaga memoria depassionalizzata, in attesa di ritornare come storia, o almeno così era prima dell'epoca dell'eterno presente post-boom-, "raccoglie" coppie di lettere (in genere da un padre a un figlio e risposta; e poi nel capitolo successivo sarà il figlio diventato padre a parlare per primo) scritte secondo un reinventato linguaggio d'epoca. Difficilissimo da tradurre e tradotto, ci pare, benissimo, Variazioni postali accumula episodi che acquistano il loro senso dall'insieme, o meglio: dai capitoli finali, dove più scopertamente l'autore esprime la sua filosofia della storia. Mentre si gira un film (nel '70) sul '45: "i neonati si travestono con gli elmetti, si ricostruisce l'orrore, si imita il sangue". La storia è guerra e magia, è eterna commistione di irrazionalità 'razionale', di premonizioni e di boomerang. E la definizione che si dà della guerra come "potenziata paradossalità della vita", perfettamente si attaglia all'idea di romanzo che ha Brandys, ed è allargabile, teorizzabile e rivendicabile come definizione del romanzo quale dovrebbe poter essere, oltre gli stili e i linguaggi e le scelte. Si adatta perfettamente per esempio, anche al piccolo capolavoro del mio amatissimo West. Il più commovente. Non è che la parola commovente abbia buona stampa o molto corso fuori dalle telenovelas, ma a me piace e mi sembra molto adeguata a un libro strano e diverso: Strade blu di William Least HeatMoon (Einaudi), il ponderoso diario di un viaggio circolare e marginale per coprire un tempo di crisi, da casa per tornare a casa, di un amerindiano che riannoda con la tradizione dell' on In alto: La bambina nella cornice (De Antonio 1928, da Gli scrittori e la fotografia). In basso: Klaus Mann. the road ma anche con quella dello Spoon River e dello Williams di Nelle vene dell'America. On the road ma anche in the home, dentro le case e a contatto con le persone, con poca retorica Jondoniana ma anche senza lacrima provinciale. Il viaggio dentro di sé ha bisogno del fuori e degli incontri, checché ne dicano gli asfittici scrittori dell'iperJetterario. E qui, nel viaggio, si respira, e si sente la gente, grazie al paesaggio e grazie anche alla curiosità dell'autore. Diverso da tutti i libri di viaggi americani che conosco (soprattutto diverso dai viaggi-pretesto dei catto-tedeschi) lo è anche dall'altro più bel libro di viaggio americano che io ricordi, di recente ristampato nei Tascabili Bompiani, Lo zen e l'arte della manutenzione della motocicletta di Pirsig. Arriva alle ra- · dici anche se non cerca il mito e non filosofeggia; ed è bella letteratura anche se non parte dalla letteratura né vuole arrivarci. Cerchio (da c·asa ver&o casa) e spirale (da casa verso una casa più cosciente e più libera). Si legge d'un fiato, e paradossalmente ci fa riaccostare ali' America minore come non si riesce invece più a riaccostarsi all'Europa ... Ahiahi! Il più ingiustamentetrascura- . to è un libro uscito a gennaio, ben dodici mesi fa, presso Il Saggiatore: La svolta di Klaus Mann. Lo ricordo, perché i lettori che non lo conoscono sappiano almeno che esiste. Il figlio di Thomas Mann fu autore di Mephisto e di Finestra con sbarre, che sono prove non da poco e si suicidò nel 1949. Il suo libro vale sotto molti aspetti: quello della memoria famigliare, quello della formazione esistenziale e culturale di un giovane intellettuale, e forse soprattutto quello del vasto quadro
di un'epoca, gli anni Venti e Trenta, ricostruito da uno che c'era, attraverso lucidissime descrizioni di ambienti e persone. Ritratti brevi e spesso folgoranti: oltre il clan dei Mann, Gide, Crevel, Auden, Isherwood, Roth, Toller, Brecht, Cocteau, Benn, Huxley e cento altri. La svolta voleva essere secondo l'autore, "la storia di un intellettuale tra due guerre mondiali, ... che quindi ha passato gli anni decisivi della·sua vita in un vacuum sociale e spirituale, e perciò affannato a trovare una connessione con una qualche comunità, a inserirsi in un qualche ordine, sempre sospeso, senza pace, cacciato qua e là, sempre in cerca ... ; la storia di un tedesco che volle diventare europeo, di un europeo che volle diventare cittadino del mondo; la storia di un individualista cui ripugna l'anarchia quasi come la standardizzazione, l'allineamento, l'irreggimentamento; la storia di uno scrittore i cui interessi primari risiedono nella sfera estetico-religiosoerotica, ma che sotto il peso degli eventi perviene a una posizione di consapevolezza della propria responsabilità politica, persino di lotta ... ". Questo era il progetto, e il risultato è pieno. Gli anni Trenta appaiono sempre di più come quelli decisivi, quelli della "svolta" di un secolo e dell'apertura all'orrore del futuro, ancora irrealizzato. Tornarci è utile, e l'occasione è ottima. Il più intrigante. Diego Mormorio ha raccolto per gli Editori Riuniti testi molto suggestivi in Gli scrittori e lafotografia, un libro che non mi pare abbia molti equivalenti in altri paesi. Non sto a nominare gli antologizzati, che vanno da Apollinaire a Zavattini, da Baudelaire a Kundera, Barthes, Calvino ... Gli scrittori riflettono sulla fotografia, la comparano alla letteratura, ne dicono le differenze e le specificità, e dicono poi le qualità del singolo fotografo, grande o anche, come Robbe-Grillet su Hamilton, per solidarietà lolitistica, men che mediocre. Trascurando le scemenze del tipo "è la fotografia un'arte?", Mormorio ha scelto acutamente le letture più diverse della fotografia come forma d'espressione e soprattutto di comunicazione, intervallate da curiosi o acuti "ritratti di fotografi" a opera di scrittori. In definitiva, però, le letture possono venir ricondotte a due filoni dominanti: quello "metafisico" (la fotografia come sollecitatrice di discorsi sulla morte, sull'identità, sul tempo e lo spazio) e quello "socio-antropologico" (la fotografia come descrizione del mondo e intervento nel mondo). Il suo è un libro di riferimento fondamentale, e le sollecitazioni a una discussione vi sono infinite. Mi limito a ricordare come assai convincenti le posizioni di Doblin: contro i fotografi-artisti o artistoidi, contro i finti realisti alla caccia di "somiglianza", per i fotografi-sociologi ... Ma a patto di dare del foto-sociologo una visione meno restrittiva di quella di Doblin, a patto che si possa vedere il fotografo come sociopoeta. Il più utile. È il. volumozi:o (1500 pagine, 48.000 lire) della Nuova Enciclopedia delle Scienze Garzanti, che ha avuto redazionalmente la cura centralizzatrice di Emanuele Vinassa de Regny. M'intendo poco di scienza, ma ecco un libro da scrivania, vasto e preciso, suscitatore di curiosità oltre che fornitore di notizie attendibili su cose che mal si conoscono. Guai a non averlo! Il più "italiano". È il romanzo di Nico Orengo Ribes (Einaudi), felice meccanismo al limite del vaudeville, movimentatissimo quadro di una società "vitale" almeno quanto un formicaio, che conferma l'opinione di chi pensa che il nostro paese sia abitato da due razze dominanti: le cavallette e i puffi (con la sottospecie delle cavallette che si credono puffi e delle cavallette che si mascherano da puffi). Per fortuna ci sono, anche qui, i quasi-marginali. Di questo romanzo ho scritto altrove, ma voglio ricordarlo, perché non sono molte le opere che sanno coniugare così attentamente fiabesco e reale, a partire da un 'idea dell'Italia meditata e convincente. Orengo è diventato adulto, e speriamo che sappia rimanerlo con questa vivacissima grazia. Il più sciapo. È il libro in cui Giulio Einaudi raccoglie le sue memorie, o meglio i suoi Frammenti di memoria (Rizzali). Si è. letto raramente un libro più incolore e più insapore. E ci si domanda come ha potuto l'autore essere l'editore che si sa, visto che talenti particolari qui non ne dimostra, oltre il gusto per le tipografie e per la collezione di case. Il mistero resta, anche se in generale risulta ormai chiaro (anche dalla lettura di uno dei tanti libri di memorie editoriali di Bompiani, che· pure sa scrivere un po' meglio di Einaudi) che il mestiere dell'editore è in molti casi la vocazione di un ricco. Meglio: di un figlio di ricchi, che dai genitori eredita anche la capacità di IL CONTESTO giocare coi soldi. E - credo, nel caso di Einaudi - ha di suo l'abilità tutta politica di combinare o scombinare gruppi (di persone in genere molto molto più povere di lui). Non ho il mito degli editori e neanche dei redattori di case editrici: è un mito costruito da loro s,tessie dai loro, in vario modo, dipendenti. Riassumerò quindi con un aneddoto. Anni fa ('61) passeggiavo per il corso di Perugia al seguito di Capitini e Ernesto Rossi, che parlava sputacchiando come suo solito e s'era lanciato in un grande elogio della multiforme attività di Adriano Olivetti. "Adriano di qua e Adriano di là", ma alla fine Capitini lo interruppe, pacificamente sornione: "Ernesto, se avessi avuto io i soldi che ha Adriano, forse a quest'ora ci sarebbe il socialismo in Europa". Scherzava, scherzava. A destra: Nico Orengo (foto Giovanni Giovannetti). A sinistra: Einaudi (foto M: E. Smith/Agen:z:ia/Gra:z:ia Neri). 9
ILCONTESTO CINEMA · , Daun festivalall'altro, i piùbelltirai film recenti Gianni Va/pi I tre ·· · I . •. . P1uimportantifestiva 1taham,Pesaro V ·a Torino, sono se b enez1 m.raticonfermare, per u_na:uriosamacomunquesigni~ f1cat1vaCoincidenzuan, paio d1 no_strevecchieconvinzioni. La pnma, _chgelianniSessanta sono stau gliultimi n cui il cinema ha a_vutuònaveracentralità e necessitào, tticaprivilegiataa!- traversocu1r·e . ed espn- g1strare mere realtàe sensibilitànuove, e_conunalibertàlinguistica,tecnica, produttivaimpossibileanche ai grandiautoridei decenni precedenti.Og .. f t·val vivo- no. d. b g1,1 es 1 .1 elleretrospettive.Sono esse 11loropu t f t . Pasoli- . V no or e. m a enezia,la ScuolaPolacca a cavallotra e· ta e Ses- mquan santa a Torin , dentro e f · I " O, COSI . uon a tnod · ·" dei Nuo- . c· ermta v1 mema cos'd" . tra un du- . . , 1 1v1sa ro, mqmetore r i tempidi una so . a 1smoe . ggettivitàesistenziale 0 morale o reJig· ·1 rimo più in Munk( _iosa, I p . ,, . eneidocumentaridella senenera")chenon inWajda, la secondanelsorprendent~ Nessuno chia ct· K tz negh · f"J ma l U , stessi i md1· K . k. chepure • onw1c1 ntr~vano Soltantoin partequella d1sperazion" . 1·ca''e so- . e catto1 ciale checosft . ·1 erbo dei suoi rom _1u1sce1 n. . anzi su tutti di Piccola apocalisse.' ~ vero chequelladi Pesaro sul cmernaso . . . na retrò- . . v1et1ceou spetllva1nvoJ . • in realtà la ro O ontana, e , . ~ P stadiopere nuove che m van tempi sono state cancellate dalla censura p d. o soltant •d . ren 1am 0 1 ue casip · · 1-Lastoria di As ·a[( . rmc1pa L • :I . lJacinacheamosenza sposarsi di .A d . K nchalov- k , n rei o s Y e addiritt d I '67. Un "caldo" ura e · · . , autenticoquadrod1v1ta_d1l?l~?oz1ontanodaglischemi e1.. kinokolchoz"' gente ~or~a!e invececheattoriprofess1_om~ula,rgos . ll'improvv1saz10n pazioa · · . e, freschezzae libertad1 figure e · t· . ' as1, comportamen1, esperienze,tutti conqualcosada raccontare, i tempi dellarealtà e no_ndella fict· no stupendo nsor ion, u . · . '} ito Personaggiofemminile lazo · A ·a ' Ppa e graziosa SJ , ~on la sua serena "amoralità" e 11suo senso d. 1.b t' un felice . 1 era: reperto d1qu I . d1f·ilma- e piacere 10 re (e filmare la vita) che era di quegli anni. Alla scoperta .del mondo di Kira Muratova; notevolissima autrice cinquantenne di cui sino all'anno scorso si ignorava l'esistenza, è del '79, ed è un sensibilissimo studio di rapporti, una donna muratrice in una città in costruzione e due autisti di carattere opposto. Ancor più, è uno sguardo, oltre l'intreccio, su un mondo incompiuto. Per il cinema sovietico, però, non è solo questione di censura, bensì, per così dire, di uno strutturale ritardo (se si vuole, positivo); tranne rare eccezioni - s'è visto - subito emarginate, si muove sui tempi lunghi di una tradizione, visioni delle cose e flusso dei sentimenti, natura e storia, che ne fanno in certi casi anche il fascino. Ma come prima di ogni coscienza dell'artificio cinematografico. Come prima della dispersione e frammentazione.televisiva, problemi con cui, però, il processo di "modernizzazione" gorbaceviano, via via che si estenderà, imporrà di fare i conti, e che varrà la pena di seguirecon attenzione nei suoi sviluppi. In questo paesaggio che da tempo è il nostro, rari si sono. fatti gli autori che escano da una medietà televisiva, che non si attestino su un solido professioni, smo e relativi schemi. E in questo, per vitalità e articolazione di proposte, gli americani continuano a essere più bravi, come paradossalmente hanno mostrato, fuori concorso ovviamente, anche nella seriosa Mostra di Venezia. Certo, si sono viste, del resto già uscite, alcune cose discrete, un robusto ritratto di una Francia petainista tetra, "senza orizzonte", come Un affare di donne di Chabrol, e il portoghese Tempi difficili di Joao Botelho, Dickens più tragicommedia dei rapporti sociali più scrittura straniata, e l'originale, veloce, benissimo recitata commedia Donne sull'orlo di una crisi di nervi dell'enfant un po' troppo prodigo Pedro Almodovar. Ma .americani erano il film-scandalo (L'ultima tentazione di Cristo), In alto: Un breve film su/l'omicidio di Kieslowski. Al centro: Donne sull'orlo di una crisi di nervi di Almodovar. In basso: S.torio di Asja Kljacina di Konchalovskij.
In alto: Good Morning, Vietnam di Levinson. Al centro: L'ultima tèntazione di Cristo di Scorse se. In basso: De bruit ed de fureur di Brisseau. il film,sorpresa (Good morning, Vietnam), il film-evento (Chi ha incastrato Roger Rabbitt, diretto da Zemeckis all'ombra di Spielberg e destinato al nostro Natale). Del film di Scorsese ormai non è quasi più possibile_parlare, dop6il grande carnevale mediologico. Ha costretto tanta gente a discutere di questioni teologiche di cui non gli frega nulla. In realtà, Scorsese intendeva fare un piccolo (anche nel budget) film personale. Ha trnvato nel libro di Kazantzakis (un autore che aveva già ispiratò a Dassin, nel '57, Colui che deve morire, .su un Cristo moderno) lo spunto per una sorta di autobiografia appena mascherata, per una libera riflessione su temi.che lo coinvolgono profondamente. Non a caso, autore di riuscitissimi film "eristici" da Mean Streets a Taxi driver, a Toro scatenato, coi loro eroi notturni e santi falliti, con la loro vocazione al martirio. Non a caso, e soprattutto interessato alla natura umana di Cristo, ai dilemmi dell'esistenza, purtroppo questa volta senza De Niro e con un flaccido Dafoe-Cristo. E forse era un film troppo "senti- . to" e· covato, riuscito in certe fulminee "immagini" (Pilato e il cavallo), nelle parti più libere come il lungo sogno sulla Croce. E soprattutto ha fatto un film molto americano. Sia nei suoi aperti riferimenti a un immaginario cinematografico e ai suoi "generi", l'horror della mano di Lazzaro o di Cristo che si strappa il cuore dal petto. Sia nel suo toccare nel vivo le matrici religfose della società ame- · ricana, ·quelle utopiche di salvezza mistica •come quelle cialtronesche dei predicatori televisivi. E anche per il Vietnam, dopo oltre novanta film "seri", è giunto il tempo se non di un vero film comico, della commedia beffarda. Anzi, per il suo Good Morning, Vietnam, Barry Levinson sceglie intelligentemente una strada a mezzo tra la farsa alla Mash, che parlava della Corea e già alludeva al Vietnam, e il turpiloquio delirante e monologante alla Lenny. Lasciamo stare i buoni intenti di una cattiva coscienza esagerata, di mostrare vietnamiti e vietcong dal volto umano, ché per questa strada non si va troppo in là. Appena aggiornati, siamo sempre a La buona terra anni Trenta; i gialli sono sentimentali, semplici, gioIL CONTESTO cherelloni, infidi. La forza di Levinson è nell'uso delle potenzialità trasgressive del turpiloquio· (e del rock basso), nell'opporre alla "follia" della guerra vietnamita la follia verbale, scatenata, irriverente, la vitalità prorompente, la libertà soldatesca di questo dee-jay della radio delle forze armate di Saigon, màniaco sessuale, residuato della cultura hippy, trovandovi un grande interprete in Robin Williams, un po' Groucho Marx un po' Benigni di fuochi d'artificio verbali e sarcasmi. In Africa è in atto una svolta. Dimenticati gli arcaismi tecnici, formali, antropologici, quel cinema imperfetto che ne aveva fatto il fascino di cinema delle origini, delle radici, della diversità, ma anche aveva alimentato in occidente una sorta di "tarzanismo culturale", è arrivata !'"era del professionismo", degli scontri e delle scelte vere. E la strada scelta, e non entusiasmante, sembra essere quella del vecchio film di denuncia con la sua immediatezza ma anche i suoi schematismi. Poi, però, bisogna distinguere. A Venezia, ha riscosso consensi e premi Campo di Thiaroye dei senegalesi Ousmane Sembène e Thierno Faty Sow, il primo uno dei padri del cinema africano. Film lineare nella sua fluvialità, ricostruisce un "normale" fatto dì razzismo, a suo tempo cantato da LeopoId Senghor, di cui ha già parlato Fabio Gambaro nello scorso numero della rivista. Un linguaggio "semplice", popolare, con i suoi toni di commedia che si rovesciano infine in tragedia, un gustoso parlato in francese indigeno, i personaggi dei soldati articolati con cura, senza, però, uscire da una tipizzazione e simbolismi scontati, ufficiali francesi rigidi e ignoranti a eccezione del solito riformista (l'umanesimo della cultura) destinato alla sconfitta, alcune scene corali di gran respiro epico in cui Sembène sembra più a suo agio: insomma, una certa "autenticità" umana sotto l'inevitabile retorica e il tono didascalico, un canto dell'orrore coloniale, un riappropriarsi della propria storia che non riserva sorprese, né riapre dialettiche inedite. Un film forse più utile, anche per le sue notevoli dimensioni produttive, per l'esportazione, affermazione di un'identità culturale e politica, quella del "sangue nero" di testimoni e martiri di un'Africa che sui 11
IL CONTESTO campi della seconda guerra mondiale ha preso coscienza di sé, e soprattutto analisi dei meccanismi del ràzzismo. Tutto rivolto verso l'interno, l'oggi, le contraddizioni degli stati africani, è invece Zan Boko di Gaston Kaboré, Burkina Faso, visto a Torino. Il suo bell'esordio Wend Kfuni era tutto radicato in un'intatta tradizione, nelle sue forme di vita e di narrazione orale; qui, invece, punta su una forma più normalizzata, ma conservando una sua orizzontalità attraverso un realismo minuzioso, visivo, di gesti, lavori, riti, cibi, piccoli fatti quotidiani, il corso di una vita. Ma a poco a poco segnali vieppiù allarmanti introducono al vero grande tema: l'urbanesimo selvaggio che distrugge le forme di vita tradizionali, "umane", e, dietro questo "sviluppo", una borghesia nera rapace e corrotta e autoritaria. Il merito di Kaboré è quello di esserè estremamente diretto, di non trincerarsi dietro mediazioni e distinguo. La tavola rotonda televisiva che viene bruscamente interrotta dall"'alto" quando prende la parola il contadino espropriato e cacciato dalla sua casa, ed è sostituita con una telenovela sui luoghi di sogno della Costa Azzurra, è un capolavoro di ferocia grottesca e polemica. Oltre il discorso sulle for, me, un adeguamento (tecnico, almeno) a un modo di raccqntare occidentale che i registi africani · sembrano ritenere_oggi necessario, è come sempre questione di radicalità. E Kaboré non gira attorno alle questioni di fondo. È aspro come il suo proletario protagonista che bene riassume la situazione, "sono riusciti a rendermi inutile nella terra dei nostri antenati", e conclude senza mezzi termini sulla nuova classe dirigente: "tra loro e noi non ci sarà mai pace". Appunto, ed è la nostra seconda convinzione, il cinema ha ancora un senso e una sua forza laddove, per condizioni marginali, per intensità di esperienze personali o intellettuali, si sottrae al cerchio dell'innocuità, artistica o eccentrica che sia, e ritrova un' attualità del bello, di evento non da cineteca ma che coinvolge lo spettatore, lo spinge a riflettere sul suo modo di stare al mondo. È ciò che salva anche un film pieno di scompensi come De bruit et de fureur di Jean-Claude Brisseau, un ex-insegnante, con la sua commistione di stili, referto sociologico, fiaba, tragedia, av12 ventura iniziatica, con il suo insieme di riferimenti, Shakespeare e Faulkner, Vigo e Genet, con la sua fiducia umanista nel recupero pedagogico, ma anche quadro impressionante di disgregazione delle banlieues, spazio chiuso nella sua ferinità per gli adolescenti, che ha suscitato in patria accese discussioni per le sue "esagerazioni". . La pedagogia sembra la chiave con cui tanti giovani cineasti entrano in rapporto con il reale, ne mettono in discussione sclerosi e morali, ma, come Chen Kaige, per salutarmente concludere che non esiste una pedagogia, se non quella del "caso", dell'esperienza, quella per cui lui stesso e Ah Cheng, autore del romanzo da cui il suo Re dei fanciulli è tratto, inviati a suo tempo a lavorare in una regione ai confini del Laos, vi scoprono una Cina diversa, vera, contro tutte le intenzioni dei burocrati. E in quella stessa regione è ambientato il suo film, negli anni finali della Rivoluzione culturale. Vi giunge un giovane maestro, scelto misteriosamente dal suo gruppo dopo anni di lavoro manuale. Vi arriva facendosi largo nella foresta con una spada, come a voler sciogliere intrichi. È un viaggio verso l'interno che è scoperta di un'altra Cina come stile di vita e come natura, che pone ih gioco questioni prime. Il rapporto mai davvero mutato tra intellettuali e popolo; il rifiuto di una pedagogia della ripetizione, del copiare, in un paese a lungo abituato ai rituali ripetitivi del libretto rosso; la coscienza delle pesanti eredità, nonostante tutto, della tradizione ("il cielo cambia, ma la morale resta"); il senso della responsabilità individuale; il -valore determinante dell'esperienza (esposto in uno stupendo, e davvero didattico, episodio sull'impossibilità di fare un tema su ciò che si farà domani) e della creatività, sino a.inventare ideogrammi "volgari" (piscio-vacca) che è il suo lascito, dopo essere stato cacciato dalla scuola. Ed è ancor più lui a essere stato educato dagli allievi. È questo ricco sostrato di temi e concreti riferimenti che ne fa qualcosa di più di un ben fatto, ennesimo racconto di educazione, chè dà al film una costante inquietudine, un sotterraneo senso di colpa verso una realtà ben lontana da quella degli slogan e verso la gente, contadini, ragazzi, che la subisce. Ed è ciò che sconvolge il suo apparente, classico realismo, tutto paesaggi cinesi insoliti, tutto ellissi, attacchi nervosi, a scatti, a sincronismi, come di fronte a una realtà cui non ci si può adeguare. È un'analoga urgenza, con meno passione e più lucido, disperato rigore, che permette al polacco Kieslowski, di fare un cinema davvero moderno,. di trovare una forma nuova e adeguata. Il suo Un breve film su/- l'omicidio, per tutta la prima parte, apparentemente descrittiva, di percorsi destinati poi a incrociarsi - un odioso taxista, un giovane sbandato, un brillante avvocato - con la tragica definitività di una metafisica casualità, ha un'immagine scura, buia ai bordi, come ci si muovesse in una realtà senza più definizione. Come se i personaggi, messi a fuoco al centro, fossero provvisorie insorgenze di un clima livido. Dopo il delitto assurdo, un gran pezzo di cinema crudele, di un'estrema meticolosità sino all'insopportabile, le immagini, il nitore, la definizione, la nèutra efficacia dell'azione istituzionale, con un'esecuzione del giovane di simmetrica crudeltà. Quello di Kieslowski è un film di una nera, estrema disperazione, come di chi non ha più nessuna illusione. E proprio per questo di una moralità radicale, dostoevskiana, come di chi con esti A Chintara Sukapatana in Good Morning, Vietnam. senzialità e giusta violenza espressiva mira diritto alle ragioni prime, a una condizione fatta all'uomo. E allora assume tutta la sua forza polemica sottesa al film sulla pena di morte, religiosamente improntata a uno dei comandamenti, sì che beffardamente può rovesciare sulla società polacca, in una condanna definitiva, un principio di Lenin: "Da Caino in poi, nessuna pena ha raggiunto il suo scopo". NOIDONNE Dicembre 1988 GrandangoSloe:ssoelavoro Prostituatennni ovanta Ildono diBiancamaFrira botta ElezionUisal:edonne Legendaria, supplemento dilibrei percorsi dilettura S0CIABB0NA TI! Versamento dilire115.000 sule/en.60673001 intestatao Cooperativa LiberaStampa, viaTrinità deiPellegrin1i2, 00186Roma, Telefon0o6/68645626864387
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