Linea d'ombra - anno VI - n. 32 - novembre 1988

STORIE/SWln de'rare unico oggetto di venerazione un certo cronografo? - · ma 'quella notte mi preoccupai della mia anima; credo che quella notte un Dio fosse all'opera a dirigere i miei passi ver0 so il luogo della sua vendetta. Rullavano i tamburi del tuono. Grazie agli intermittenti bagliori dei lampi, riuscii a trovare la strada per il pendio del faro; ma una volta giuntovi, m'accorsi che non mi serviva una guida che ini indicasse il cammino - e non avevo bisogno di giungere in cima per starvi come una banderuola impazzita; Le colline sono formazioni spoglie, ardite e, nell'accecante splendore di magnesio dei lampi, era possibile scorgerne ogni pàrticolare. Abbarbicato ·al pendio, c'era uno di quei folti d'alberi solitari che in queste colline pare abbiano una connessione druidica. Non era necessario andare oltre. Uno degli alberi. era stato squarciato e abbattuto dalla scimitarra di un fulmine. Accanto al suo relitto contorto, giaceva il nonno, senza vita, una smorfia raggelata sul volto. E nella tasca del panciotto, sotto il cappotto e la giacca inzuppati di pioggia, continuava a ticchettare il Grande Orologio, il suo minuscolo e perfetto cervello meccanico ignaro di temporali, drammi, umane catastrofi. O spiriti immortali, aiutat'emi! Aiutami, Padre Tempo! Al crematorio, ultimo dei Krepski, con il Grande Orologio ·che mi ticchettava in tasca. Le fiamme completarono l'opera del fulmine riducendo, in pochi secondi, in cenere il centosessantenne corpo del nonno. Quel giorno - un tranquillo e splendido giorno d'agosto - così diverso dal giorno della sua morte, sarei potuto andare via e diventare un uomo nuovo, dirigere i miei passi - non era lontano - verso il cortile della scuola dov'.era Deborah jn mezzo alla sua allegra nidiata e chiederle la riconciliazione. Sua madre; mio nonno. I purificanti legami del lutto. Avrei potuto gettar via l'Orologio. Avevo infatti pensa- _todi bruciarlo insieme col cadavere del nonno, ma le regole dei fornì crematori sono rigide al proposito. E cosa feci quel pomeriggio, dopo aver assistito alla lettura frettolosa di un misero testamento nello studio di un avvocato a Chancery Lane, se non camminare sotto i platani lungo il Tamigi, tenendo l'Orologio nella mano madida di sudore, autoesortandomi a disfarmene? Per due volte, ritirai il braccio lasciandolo ricadere. Dal fiume baluginante, trasportata dalf'acqua, la voce di mio padre mi diceva: "Perch~ no? Perché no?", ma pensai alle ceneri del nonno ancora calde nell'urna, e ancora attive (di certo, non si muore tanto rapidamente quando. si è vissuto per quasi due secoli). Pensai al bisnonno, Stanislaw, e ai suoi antenati di cui conoscevo i nomi come una litania: Stanislaw senio_r,Kasimierz, lgnacy, Tadeusz. Nei sinuosi tratti del Tamigi, vidi ciò che non avevo mai visto: le guglie barocche di Lublino, le am.pie distese della Polonia. Quello che dicono gli psicologi è vero: i nostri antenati sono i nostri primi e unici dei. È da loro che viene il nostro senso di colpa, di peccato, di dovere - il nostro destino. Era stato impaurito da qualche scoppio di tuono, spaventato, per un attimo, da qualche petardo dal cielo. Strinsi forte l'Oro- _logio. Non andai all'asilo, quel pomeriggio, né, in un primo 74 momento, alla casa di Highgate. Mi recai, invece, a piedi, come un pellegrino devoto, in quella strada di Whitechapel dove il bisnonno, ricco orologiaio, a 112 anni, aveva messo su casa verso il 1870. Allora, a Whitechapel, c'erano splendide case, ma anche tuguri. La strada era anco·ra lì e ariche la vecchia casa: lo stucco che si sgretolava, le finestre rotte ricoperte d'assi, i rifiuti sui gradini dell'ingresso costituivano una beffa per l'antico edificio che un tempo vantava due domestiche e una cuoca. Lo fissavo attonito. Per una qualche ispirazione del destino, b per una reazione involontaria e inevitabile da parte mia, bussai a quella porta. Il vìso di un'asiatica: timido e profondo. Avevo saputo che c'era una stanza da aJfittare nella casa. Sì, era vero: al.secondo piano. e osì non buttai via l'Orologio: avevo trovato un sacrario in cui riporlo. E non ritornai alla casa di Highgate se non per sbarazzarmi del suo misero contenuto e provvedere alla sua vendita. Dalla stanza avita di Whitechapel, diedi nuova forma al mio mondo, come un eremita. Il Tempo è circolare - anche un profano ve lo può dire, ed ogni quadrante sta lì a dimostrarvelo. Più si vive e più si desidera retrocedere. Davanti al futuro, vecchio ciarlatano, chiusi gli occhi. E Deborah rimase per sempre in quel suo cortile, fischiando ai suoi bambini, come chi fischia invano a un cane che è scappato e che giace già morto al lato di una strada. E fu così che una settimana fa mi ritrovai seduto in quella stessa stanza a Whitechapèl stringendo l'Orologio nel palmo che bruciava, come quel giorno nei pressi del Tamigi. Mentre dal piano inferiore giungevano, im'placabili, quelle grida desolate. Cosa significavano? Sapevo (io che a queste cose avevo rinunciato per vivere in perpetua unione con l'Orologio) che erano gli urli provocati dall'unione di_un uomo e una donna, urla di tormento e vano desiderio. Sapevo che erano le grida di quella stessa donna che mi aveva aperto la porta il giorno della cremazione del nonno. Una certa signora - o signorina? - Matharu. Il marito (o l'amante?) usciva e rientrava ad orari diversi. Forse, un turista. Li avevo incontrati qualche volta per le scale. Un cenno del capo, una parola. Non cercavo di' più. Mi rintanavo nel mio covo atavico. Non intervenni neppure quando incominciarono le grida - feroci e secche quelle di lui, come di un uccello agitato e chiocciante quelle di lei. I . temporali passano. Gli orologi continuano a ticchettare. Alle urla seguivano strilli, colpi, il rumore di porte che sbattevano: singhiozzi. Continuavo a sedere, immobile. Poi, un giorno, la porta sbatté con l'inconfondibile nota di ciò che è definitivo (ah, Deborah); e quelli che seguirono non erano i singhiozzi di chi ancora implora o supplica, ma i singhiozzi solitari, simili a gemiti e lamenti funebri, di chi, solo, trascina stancamente la sua vita inutile. Discesi forse le scale? Bussai delicatamente alla porta per chiedere con dolcezza: "Posso esserled'aiuto?" No. Il mondo è pieno di insidie.

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