storico-letteraria e teorica della scelta rischiosa (e pur stimolante) da essi compiuta. Anche perché, a ben vedere, il problema è molto più ampio, è coinvolge i giudizi, oggi divenuti spesso entusiastici, in merito alla poesia dell'ultimissimo Rebora. Negli estrem; anni della sua vita (Rebora muore nel 1957) il poeta, immo. bilizzato dalla malattia, riscopre una vocazione lirica a lungo rimasta sopita: ne nascono il Curriculum vitae (1955) e, soprattutto, i notevoli Canti dell'infermità (1956 e 1957). Dico subito che trovo abbastanza misterioso, e anzi un po' sospetto, l'innamoramento nei confronti di queste raccolte. E non tanto perché manchino di fascino e di spessore conoscitivo: il Rebora degli ultimi anni riesce infatti a scatenare una furia espressiva, in cui angoscia privata e scatti volontaristici, sensibilità jacoponica per il corpo martirizzato e aspirazione devota all'impossibile salvezza, producono stridori serrìanti- ..ci e stilistici 'di sapore ancora una volta espressionista. Ma piuttosto perché mi pare molto arduo argomentare la supe- · riorità del Curriculum vitae e dei.Canti dell'infermità rispetto alla compatte~za coerentemente programmatica, e storicamente esemplare, che contraddistingue i Frammenti lirici e le poesie degli anni 1913-17. Certo, anche !'.ultimo Rebora si cimenta, come agli esordi, sull'ossimoro, sulla testarda sovrapposizione degli opposti; e la poesia relìgiosa - ridottasi per anni a umilt: parafrasi delle Scritture, a strumento di edificazione legato alle ricorrenze dell'ufficio pastorale - assume toni di terribile severità, restituendoci un dramma che non è solo personale, ma rispecchia fedelmente l'eternà dialettica peccato/redenzione. La salvezza, continuamente invocata dal sacerdote, è sempre messa in dubbio; la volontà divina è incomprensibile, la grazia non si manifesta, e solo la mortificazione quotidiana del corpo costituisce una caparra di riscatto. Escatologia e scatologia fini'scono addirittura per coincidere: così che il lettore ne trae l'impressione d'una sacra rappresentazione selvaggia, vagamente nafve, ma anche umanamente sconvolgente. Non sublimare mai: questo in sintesi il motto di Rebora, comune alla miglior parte della sua produzione. Un modo di operare inattuale - ripeto-, senza dubbio, se la poesia deye nascere dallo sterco., dall'arido dovere quotidiano, dalla storia, dallo scacco individuale e generazionale. Ma in presenza di una letteratura, quella odierna, c.he si vuole sempre più cerimoniale·, autosufficiente, e istituzionale solo per rinuncia, le parole slabbrate di Rebora finiscono addirittura per produrre un effetto di alta e moderna letterarietà. E chissà che questo non sia il modo migliore per apparire terribilmente attuali, e magari anche per riconciliare con la poesia qualche lettore stufo di narcisismi un po' vacui. 70 ANTOLOGIA/REBORA POESIE Clemente Rebora Dai Frammenti lirici (1913) LXX Dal grosso e scaltro rinunciar superbo Delle schiave pianure, Ch'a suon di nerbo la vietata altezza Sfogan nel moto isterico carponi Tra ruote polvere melma carboni Per grumi di zolle e colture E clamorosi grovigli di folle In frégola di piacere acerbo;· Dal pigro disnodar con sforzi grulli Delle ignare colline, Ch'a suon di frulli la fiutata altezza Tentan su dal letargo come serpi Fra erte e scese vicine, Per vigne, biade, ronchi, cinte, sterpi, E ville e masnade In torpor d'opere e trastulli; Dal soprassalto d'aquile e farfalle Dell'avide giogaie, Ch'a suon di stalle la sperata altezza lnvocan dal più fier dei loro monti Per cuori rudi e boschi e salvi pascoli Nei poggi calvi sotto le pietraie, Fra consensi di laghi e di fonti Ansiosi a richiamar per ogni valle; Dall'.assalto impennato in tormento Delle tragiche catene · Ch'a bufere di vento A gurgiti immani di vitreo silenzio, Fra trèmiti e vene Di .fuggenti creature, Guatano addentano Serran l'altezza veduta Con rose pupille d'eclissi e d'assenzio, Con dure bocche in morsi di pietra, Con braccia e torsi digiuni Per cave rovine d'abissi E spasimi eretti in atroci scompigli, 'Intorno schiomando con brividi fissi. Il vello di neve che scivola e piega Nei ghiacci protesi sui lividi artigli A sbarrar rupi con strazio profondo Verso gl'inviti del mondo; A vietar con angoscia suprema L'inarrivabile preda: Da piani colline giogaie catene Si lamina enorme la vetta ~u vertebre e stinchi a vedetta Con l'anima ardente nei geli costretta. Sopra, il vuoto dell'ombra e del fuoco In infinita voragine tù.rbina: Sotto, dal va:nodell'aria la terra - Fra bave di nubi e tormenta - L'ultime scaglie le avventa, E fugge ghermendo la vita Effimera d'orme e di voci In· vertigine atterrita. Fra incomprensioni immutabili Di pregio, d'invidia, di voglia, Dal basso che ignora all'alto che spoglia,
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