SAGGI/GIOVANNETII NONSl!BLIMAREMAI. IL PUNTOSUREBORA Paolo Giovannetti Una coedizione Garzanti-Scheiwiller permette finalmente a un pubblico in potenza assai vasto di entrare in contatto con la poesia di Clemente Rebora. Gli studiosi, senza dubbio, ne saranno soddisfatti, anche perché si vedono proporre Le poesie (1913-1957), curate da Gianni Mussini e dallo stesso Vanni Scheiwiller, in una-raccolta filologicamente ben curata, ricca di informazioni e di aggiornamenti bibliografici, preziosissima per qualsiasi ricerca su Rebora; e inoltre perché potranno leggere in volume componimenti esclusi dalle precedenti edizioni, disposti, insieme ai già editi, secondo partizioni tematiche e cronologiche che rimediano quasi del tutto alle_incoerenze delle passate stampe. Ma il fantomatico lettore comune, l'inafferabile-inesistente-auspicato lettore di poesia, quello che con il testo dovrebbe instaurare un commercio disinteressato e improntato al puro piacere estetico, il lettore che può comprare o non comprare un volume, leggérlo o non leggerlo, che cosa si deve aspettare dalla poesia di Rebora, quali motivi di soddisfazione ne può trarre? È meglio essere chiari sin dall'inizio: la lirica reboriana, se letta nell'anno 1988, nella società - letteraria e non - che tutti in qualche misura conosciamo, è destinata ad apparire, inevitabilmente, inattuale. E non solo per le ragioni stilistiche che i critici hanno da sempre additato: l'eccentrica, seppure 'necessaria', mescolanza di iperletterarietà e di cadenze quotidiane e colloquiali, vicine persino al dialetto; un linguaggio in cui i valori del verbo, dell'azione cioè e del movimento, prevalgono sulle istanze della verticalità e della contemplazione; una metrica e una sintassi programmaticamente asimmetriche,. cacofoniche, orientate verso una pronuncia scostante, ai limiti, consapevolmente perseguiti, del brutto - tutto quello insomma che chiamiamo espressionismo linguistico, ricerca di una parola instancabilmente dinamizzata e sgusciante. No, non è solo una questione formale. A ben vedere, le ragioni dell'inattualità sono più profonde, pertengono alla fisionomia globale della produ;done reboriana, coinvolgono il rapporto stesso tra pagina lirica e mondo, rovesciando per molti aspetti l'idea di poesia più vulgata e generalmente accettata. Il fatto è che nell'opera di Rebora non.cessa di turbarci un'istancabile ambizione alla totalità, una tensione verso la verità che sembra aver poco in comune con un discorso di natura poetica. Affermazione ben strana, in apparenza, se applicata a un poeta che lega il suo nome a una raccolta di frammenti, i Frammenti lirici, appunto. Eppure, il frammentismo reboriano è sempre sostenuto e controbilanciato da un'affannosa spinta unificatrice che cerca di conferire alla raccolta di liriche, al volume, al macrotesto, una fisionomia unitaria e singolarmente compatta. L'esperienza dell'indivi68 • duo calato nell' "egual vita diversa" può sì certificare la dissoluzione d'ogni certezza, ma questo per il poeta non è altro che il pungolo a riaffermare ostinatamente uno slancio centripeto, in grado di ricomporre i brandelli del mondo dissolto. Le due tendenze, nel miglior Rebora, sono sempre compresenti; non si può coglierne una ignorando l'altra. L'esempio più estremo, e per questo più significativo, è offerto dalle liriche scritte in occasione della prima guerra mondiale (che nel volume garzantiano possono essere lette nella sezione Poesie sparse e prose liriche). Rebora compie un percorso improntato alla più sconcertante autenticità. La guerra è dapprima rappresentata in chiave rigeneratrice, una sorta di prova storica che non può non determinare un riscatto collettivo dell'umanità, attraversata da una tensione mortifera purificabile, appunto, con una palingenesi sanguinosa. Ma poi, una volta vissuta sulla propria peBe la tragedia del conflitto, ecco che Rebora, a partire dal 1916, inverte bruscamente direzione, e con uno stile sempre più allucinato, dove ormai verso e prosa si sovrappongono e si confondono in un- caos di indistinzione precategoriale, denuncia l'assurdità della guerra, ne tratteggia i quadri più raccapriccianti, riuscendo a contrapporle soltanto un disperato vitalismo connesso alla propria vicenda d'amore. Infine, anche l'estremo barlume di speranza sì annulla, anche l'amore-non permette alcuna compensazione, e le speranze chimeriche che la guerra aveva offerto vengono definitivamente allontanate; il poeta preferisce tacere, delegando l'interpretazione della crisi a una sfuggente sfera extraestetica. Un percorso esemplare, insomma, che Rebora voleva realizzare in un volume unitario (così come aveva scritto più volte nelle lettere del 1916), e che noi, oggi, possiamo ricostruire solò con una certa fatica, apprezzandone tuttavia l'assoluta coerenza testimoniale. Il senso, insomma, non può mai essere perso di vista: il suo scacco, verificabile quotidianamente, non ci esime dal ricercarlo. II massimo di prostrazione individuale e collettiva non è che uno stimolo al perseguimento di una possibile ricomposizione futura. E, negli anni precedenti la guerra, questo tipo di ricerca poetica aveva condotto Rebora alla pubblicazione dei Frammenti lirici (1913). I settantadue componimenti contenuti nel volume disegnano quasi un percorso di natura filosofica (Rebora, in questo settore, aveva 'ottimi maestri: Antonio Banfi e Piero Martinetti), attraverso il quale, in una sorta di Bildung poematica, il soggetto lirico cerca una stabile collocazione all'interno del proprio mondo, oscillando pendolarmente tra la tentazione ignava della fuga nella natura salvifica, e l'autoesaltazione, che deve propiziare un auspicato riscatto sociale. È, per molti aspetti, il Rebora più 'milanese', lacerato da un aristocraticismo solipsistico, ma anche dall'esigenza di offrirsi al mondo, di fare del bene, di sentirsi buono nel contatto vivificatore con il prossimo. Inutile dire che entrambe le istanze entreranno in crisi; e cioè si profila fin dall'interno dei Frammenti lirici, dove le tracce del volontarismo etico vanno progressivamente
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