Linea d'ombra - anno VI - n. 32 - novembre 1988

STORIE/GANDOLFO selva fosse dentro di lei. Le parve che la voce del Mandinga avesse assunto un tono di comando. - Va' al ruscello. Isabel obbedì. Si sfilò docilmente la giacca del tailleur, l'appoggiò sulla stuoia· e si avviò scalza per il sentiero che l'uomo le aveva indicato. Orale sembrava che quei tamburi instancabili battessero al ritmo del suo sangue, vibrandole nelle orecchie e nel ventre. Appena udì il rumore del ruscello cominciò a slacciarsi la camicettà. Poi-tolse le forcine che le tenevano raccolti i capelli. Ern nuda, con i capelli sciolti, quando entrò in acqua scivolando su grosse pietre lisce e grigie. Si sentiva una ninfa, fragile e graziosa. Percepiva gli odori e i colori più intensamente ed era felice. Quell'acqua fredda, che scorreva veloce accarezzandole la pelìe, sembrava lavarla anche dai vecchi timori e restituirle per la prima volta la gioiosa coscienza del suo corpo, dei seni sodi, della curva armoniosa dei fianchi che si offrivano, ora che nuotava sul dorso, alla carezza del sole. Sì, quel corpo disprezzato, maltrattato, riviveva all'improvviso. Quando uscì dall'acqua si udiva il grido delle scimmie. Isabel infilò la camicia e la gonna sulla pelle bagnata e s'incamminò verso la capanna del Mandinga. Venendo dalla luce del sole, l'interno le parve scuro e fresco. Appena entrata avvertì sul seno, rivelato dalla seta bagnata della camicetta, gli occhi profondi del Mandinga, che stava fumando disteso in un'amaca, in fondo alla capanna. - Vieni qui, disse gettando in terra il tabacco. Quando lei gli fu accanto, sollevòdall'amaca una mano grande e forte e le accarez.zò i capelli umidi, scendendo poi lentamente anche sul viso. Sentì quelle dita scure che si soffermavano sulla sua bocca e provò il confuso desiderio di baciarle: timidameqte, con la punta della lingua, cominciò a leccargli il palmo della mano. - Vieni, ripeté lui. Non seppe quando si alzò dall'amaca per aiutarla a svestirsi. Come in preda alla febbre sentì che l'amaca accoglieva il peso del suo corpo. Tra le gambe, un'ansia, spina, morso o bolla di fuoco, s'infiammava quasi con dolore. U respiro le si fece ansimante. Chiuse gli occhi, ora le labbra del Mandinga le percorrevano lente tutto il corpo, scendevano, cercavano la spina impazzita, l'accarezzavano fino allo spasimo, prima che sentisse le mani dell'uomo aprirle dolcemente le gambe e divaricarle ai due lati dell'amaca. Quarido il Mandinga entrò in lei la bolla ardente fu divorata da un'oscura urgenza di raggiungere la cosa che la scuoteva con un impeto abile e folgorante, nuotando in acque profonde come un pesce vorace e risalendo, a poco a poco, fino a incontrarla nel centro del proprio essere, strappandola a quello spasmo iridescente che la fece inarcare e gridare, avvolgendola in un vortice in cui, prima di essere restituita alla realtà della capanna, dell'amaca, dell'uomo, della sera vibrante di calore, dei tamburi che continuavano a suonare vicini, seppe che il patto della sua lontana bisnonna era stato rinnovato ancora una volta, che lì sarebbe tornata a morire, in quell'angolo della selva, nel fiume San Juan, su quel letto di tenere alghe in cui il Mandinga, imprigionato, la stava aspettando per l'eternità. (traduzione di Monica Mo/teni) 52 IL BUIO SOTTOIL TAVOLO Elvio E. Gandoljo I I capo ha detto che potevo andarmene con due ore di anticipo per finire le cartellette di documenti che avevo portato a casa la sera prima. Dopo un lungo viaggio in autobus, nel giorno nebbioso, umido, con odori che restano come sospesi nell'aria, entro nell'ascensore giallastro, sporco, percorro il corridoio le cui pareti sembrano sudare e apro la porta dell;appartamento, spingendo per vincere la resistenza dello stipite. In sala ci sono quattro sedie, un solido, vecchio tavolo di legno con· gli spigoli arrotondati e le gambe formate da una grande U anch'essa di legno, che appoggia sopra un sostegno rotondo e grosso come un tronco. Di dietro, in fondo, vicino alla porta della cucina, c'è la credenza, un po' opaca. In uno sportellino a sinistra, in cui dovrebbero stare le bottiglie delle varie bevande, tengo le cartellette, dei fogli bianchi, della carta càrbone. Senza togliermi il soprabito mi avvicino, infilandomi tra le sedie e la poltrona (i mobili stanno un po' stretti nello spazio ridotto dalla sala) e mi abbasso. Anche la porta del mobile è un po' incastrata ma alla fine cede. Tiro fuori una pila di cartellette e, invece di portarle sul tavolo, mi lascio cadere lentamente e resto seduto, passandole una dopo l'altra in cerca di quella che devo finire. ·All'estremità opposta la porta d'ingrésso si apre: sicuramente mia moglie, penso, e alzo appena la testa per guardare da sotto il tavolo, attraverso la rete che formano le gambe a U, le gambe sottili delle sedie e la tovaglia ricamata che pende vicino al mio naso, e poi più in là-, ripetendosi a due metri, dall'altra parte del tavolo. Quello che vedo sono le gambe di mia moglie, che porta scarpe coi tacchi, cosa che richiama la mia attenzione. Arrivo a distinguerle solo fino al ginocchio, fino a dove comincia il vestito viola che si mette nei week-end ..Distolgo gli occhi un secondo per guardare l'ora: le quattro e un quarto. Pensavo che il piccolissimo movimento della mia testa sarebbe stato accompagnato dal rumore della porta che si chiude (uno spinge, entra, torna a chiuderla quasi in un unico movimen~ to) e sorpreso di non sentirlo torno a guardare. C'è un paio di gambe maschili vicino alle gambe di mia moglie. Adesso la porta si chiude e le gambe dei du,e cambiano posizione: mia moglie resta appoggiata contro la porta e i tacchi dell'uomo si rivolgono verso di me: evidentemente la stringe contro la lastra di metallo. Una mano appare oltre ii bordo della tavola e della tovaglia, scende, alza il vestito

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