Linea d'ombra - anno VI - n. 32 - novembre 1988

ne intelligenti regie e alcuni ignoranti deliri, il grosso della produzione operistica è ferma ai luoghi comuni dell'Ottocento. Analogamente marmorizzato è, d'altronde, il pubblico dell'Opera: a Firenze ho visto il popolo degli abbonati applaudire a scena aperta, trascinato da irrefrenabile entusiasmo, le scenografie disegnate nel 1881 da Gerolamo Magnani buon'anima: scenografie che erano già vecchie ai tempi di Verdi. Da non crederci. Ma a parte queste irritanti sensazioni epidermiche: veder all'opera il Verdi regista insegna alcune cose preziose. Almeno una merita di essere registrata. Con pedante solerzia Verdi detta·agli interpreti una mimi-· ca esasperatamente didascalica: se uno decide di entrare in una casa deve prima indicarla bene col dito per non lasciare dubbi su dove andrà; se tutti gridano Sia maledetto tutti devono brandire per bene il pugno in aria; Paolo mette il veleno nella coppa di Boccanegra: lo fa con la sinistra perché la destra è occupata a "accennare chiarame·nte alla tazza" visto che cantare nel frattempo "Qui ti stillo una lenta agonia" non è evidentemente sufficiente a chiarire la cosa a tutti. E avanti di questo passo. Non credo che tutto questo repertorio di tautologie gestuali si possa spiegare semplicemente attribuendo a Verdi la convinzione di avere a che fare con un pubblico imbecille. La cosa è probabilmente più sottile. C'è di mezzo la vocazione del melodramma a porsi come forma di rappresentazione primitiva e al tempo stesso definitiva. È difficile pensarlo così adesso, che ormai è divenuto luogo comune del sentire collettivo. Ma c'è stato un tempo, ed era il tempo di Verdi, in cui il teatro musicale incarnava una mitica "prima volta" in CUI frammenti del sentire collettivo trovavano rappresentazione sintetica ed elementare in una figura scenico-musicale. Al pubblico ottocentesco, · per cui la geografia dell'anima era un te.rreno indistinto che da poco si era iniziato a esplorare, il melodramma forniva grandi pannelli riassuntivi in cui il caos dei senti-' menti era ordinato e fissato una volta per tutte. (Un pallido riflesso postumo di tale ambizione lo offrirà, decenni dopo, l'iconi- • ca magia delle figurine Liebig.) L'efficacia di tale azione epistemico-normativa non poteva prescindere da una certa semplificazione: tanto più elementare riusciva a e.sserela sintesi, tanto più aveva probabilità di colpire nel segno. ' È ciò che fa regredire il melodramma verso quel tanto di primitivo che si porta dietro: un tratto da cui la musica riusciva in certa misura a difendersi, e che invece dilagava letteralmente nell'aspetto più squisitamente teatrale: non essendoci nessun regista a fare da diga, lì si depositava quel che di elementare la musica non riusciva a veicolare. Tutto ciò, in qualche modo, Verdi do-· veva saperlo: senza dar troppo nell'occhio copriva le sortite sperimentali della sua musica con fitti quaderni di "disposizioni sceniche" per deficienti. Teneva inchiodato il teatro all'ovvietà, per permettersi di far volare la musica nell'inaspettato. 11 IL CONTESTO · CONFRONTI Sogni e reliHi nel ·r.ume verde-nero di J.G. Ballarcl Bruno Falcetto Il nuovo libro di James Ballard, Il gior-, no della creazione (trad. di.O. Settanni, Rizzoli, pp. 315, L. 25.000) si apre in riva a un lago disseccato: il corso superiore del fiume Kotto, nella Repubblica Cenfraficana, si è a poco a poco impoverito lasciando sempre più spa~io all'avanzare del deserto. Il lettore è dunque chiamato a entrare nel racconto per, la' porta stretta dello scenario arido di un paesaggio in trasformazione, rappresentato senza alcuna concessione al gusto dell'esotico: a conferma di una scrittura che sa benissimo avvincere.ma che non si accontenta mai del semplice intrattenimento accattivante. Su questo sfondo si muove la figura di Mallory, un medico, come accade di frequente in Ballard. Alle sue spalle una storia d'inquietudini, d'insoddisfazioni, di ripetuti rifiuti dell' "abbraccio troppo caloroso del mondo" (p. 157) che lo hanno condotto a un presente di solitudine e di confuse illusìoni velleitarie, come questa di riuscire aridare acqua e fertilità a un remoto angolo dell'Africa. · Ma, d'improvviso, il paesaggio prende a mutare una seconda volta: i_desideri di Maltory si concretizzano in realtà con l'apparizione, quasi dal n·iente, di un grande corso d'acqua col quale il protagonista. vive un complesso rapporto di ·attrazione e lotta.- Nella comparsa del fiume il romanzo trova il suo fulcro. È attorno· a esso che là trama procede: ne risale il, corso verso la sorgente seguendo gli itinerari intrecciati delle fughe e delle ricerche dei personaggi. È il fiume, soprattutto, a dare alle loro illusioni e ossessioni un grande centro catalizzatore. Questo mondo di polvere, infatti, ospita diverse presenze: è il teatro di uno scontro povero tra le ambizioni del capitano Kagwa, responsabile delle forze governative, e del generale Harare, capo di un movimento di liberazione paramarxista. E ancora è il palcoscenico che il dottor Sanger - ambigua figura di divulgatore-imbonitore di una scienza televisiva - ha scelto per tentare un'improbabile ressurrezione professionale; e quello sul quale Nora Warrender insegue la vendetta per una violenza subita e il sogno di un morido senza uomini. Il fiume ingrandisce e solidifica frustrazioni e desideri di ognuno, dando alle figure di questo microcosmo della medietà/ mediocrità attuale una raffigurazione intensa non p~iva d1 una certa distorta grandezza. Gli squilibri dei personaggi - le loro ossessioni e ansie - sono i segni stessi della loro umanità. La breve vita del fiÙme disegna una parabola pess1m1st1ca: il trionfo di verde dell' "Eden fluviale" (p. 175), del "regno fatato" (p. 128) cede lentamente il passo ai toni cupi e bruciati di un "mondo cimiteriale" (p.· 298), di "una fogna a cielo aperto" (p. 286). È la medesima parabola percorsa dai personaggi. Il viaggio die aveva visto ''l'intero processo della creazione scorrere a ritroso fino al punto di partenza" (p. 313) e così materializzarsi "il sogno di una nuova vita" (p. 228) finisce per diventare un percorso "attraverso le discariche di rifiuti del pianeta" (p. 260, corsivi miei). Sogni e_rifiuti, illusioni e detriti, sono esattamente le parole-chiave del libro: i leitmotiv di una riflessione sull'individuo e, insieme, sulla società contemporanea con i suoi miti e manie. L'iniziale movimento centrifugo non deve ingannare: anche partendo dal "luogo più prossimo al nulla dell'intero pianeta" (p. 18) è possibile parlare del nostro essere qui, oggi, di questa occidentale civiltà della tecnologia e delle immagini. E questo anche grazie all'originalità di una strategia che rifonde gli elementi tradizionali del racconto d'avventure e le suggestioni fantascientifiche irt una struttura densa e stratificata. Ecco allora che la solidità di costruzione della vicenda e l'effetto di suspense misteriosa sono il filo rosso offerto a chi legge per orientarsi in un·mondo letterario éostruito su molti livelli. È infatti un lettore disposto alla fatica çii un'attenzione 'multilineare', quello che interessa a Ballard. Al centro di questo complesso organismo c'è - con una tecnica già impiegata - 27 o .. .. iiiii .è .. e

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