Linea d'ombra - anno VI - n. 31 - ottobre 1988

IL CONTESTO Una scena di Bagdad Café e, sotto, di Grasso è bello. commedia - genere oggi faticosissimo: ché far ridere o far divertire i non cretini alienati dai drive-in internazionali è sempre più difficile - sia dilagante sotto tutte le latitudini occidentali: un "popolo" che probabilmente mai più riuscirà a sollevar la testa dal televisore e che dal bas- : so della sua infiata epa, ama as- . sai ridere della propria inaudita bruttezza. Infiacchito - gli anni pesa- , no - Blake Edwards, ultimo erede di una tradizi9ne del sapi- • do ben èostruito; anche John · Landis, piccolo autore di due ' gioiellini come I Blues Brothers e Una poltrona per due, sciupa . le suè cartucce nei rifacimenti · con battutacce, copie molto con- . formi aggiornate solo nelle su- ' perfici: il colore della pelle e una Ruritania africana in Un principe a New York, con Eddie Murphy in molti ruoli (uno impreve- . dibile di un vecchio chiacchierone ebreo!) e meccanismi abili ma bagnatissimi. Mentre l'ottimo 12 John Waters, sinora coerentissimo e anarcoide sbeffeggiatore del mito americano in tanti film spazzatura (di quelli veri, cioè colti) dove mo1to si vomita e si sbava e si imbratta, esaltando il brutto, aggredendo la pseudobellezza dell' Amerika, arriva al successo da noi e altrove con un Hairspray o Grasso è bello, che diluisce e concilia. Parte benissimo - con un quasi naturalistico Divine· e un coretto di giovani deficienti così televisiva0 mente veri! anche italianamente veri! - e finisce, una risata via l'altra, per far rientrare la beffa nella piccola farsa con contenuto progressista e abbrac-- cio tra brutti e belli. (Ma a quando un omaggio completo a Waters, magari a Venezia per un po' di allegro vomito su quei funzionari-divi-critici-spettatorionorevoli-giornalisti e altri zeffirelli-lizzani-squitieri-ghezzi e compagnia cantante?) . Ci risolleva un po' l'animo il piccolo film di Adlon, sinfonietta di sbandati (grassi e magri, rossi e bianchi e neri, euro e americani, vecchi e giovani, brutti e belli ma i belli, per fortuna, che non sanno troppo di esserlo, se è vero come è vero che l'unica bellezza tollerabile è ormai quella che ignora di esserlo) su uno sfondo geografico e umano rimesso coi piedi dove devono stare, uno in terra e uno per aria, che è anche stato di Wenders (il deserto e i motel shepardiani ... ) o di Fassbinder (i marginali ... ) ma, in loro, estremizzati sino alla perdita di significato attivo e vitale. L'amicizia di una bavarese e una nera, nella terra di nessuno dal motel cadente, è poco più che una favoletta (non una leg- '.;enda, per carità!) alla quale ovviamente si deve stentare a èredere: Ma c'è in essa una simpatia MUSICA basata (post'68, certamente, e perché no?) su una fiducia semplice semplice nella possibilità di costruire in terra e magari bollianamente ai margini e tra marginali uno scampolo di possibile utopia. Basta poco, ci dice il film, e qui ci illude. Ma che ci creda è assai bello. Ed è in questa piccola fiducia che riscontriamo un qualcosa di "religioso", (comunitario e terrestre), che ci pare difetti nel film ecclesiale di Olmi (e non tiriamo in ballo, per · favore, Roth, ché la sua leggenda è lieve come certe storie di Boli, come oggi il filmino di Adlon, quanto è pesante la fedelissima infedeltà dell'Olmi tridentino). Zorn, Berne,PowerTools,LastExit Marcello Lorrai John Zorn e Tim Berne, bianchi, ultratrentenni, sono nomi che godono di parecchia fortuna in ambito jazzistico. Considerati da molta critica due figure di riferimento per il rinnovamento jazzistico, possono contare su opportunità discografiche invidiabili (relativamente al mondo della musica neroamericana e alla loro appartenenza generazionale) e sono più che presenti nei cartelloni dei festival: hanno rappresentato anche una scelta abbastanza comoda per le rare rassegne jazzistiche della stagione estiva appena conclusa che nel panorama italiano di conservatorismo e restaurazione hanno avuto almeno la preoccupazione di mostrarsi al passo coi tempi. Zorn, che proviene da una formazione accademica e non ama essere definito jazzista (preferisce vedersi come compositore), si è fatto notare nel campo dell'improvvisazione radicale (e in questa fase della sua attività, quando era veramente un nome nuovo, ·in Italia non lo invitava nessuno) e ha acquistato poi una più ampia popolarità soprattutto in forza di due splendide rivisitazioni, di Shujjle Boil di Thelonious Monk e di Der kleine Leutnant des lieben Gottes di Kurt Weill (contenute rispettivamente negli album That's The Way I Feel Now e Lost in the Stars, omaggi collettanei ai due autori) e di una meno convincente rilettura di Ennio Morrièone (l'album The Big Gundown, di sua esclusiva responsabilità). Vivace e spregiudicato, e per determinati aspetti supportato da un indubbio e non comune talento, l'eclettismo con status di "avanguardia" di Zorn ha avuto buon gioco, nel grigiore della scena musicale attuale, ad attirare l'attenzione e simpatie. Forse, in un certo settore di consumatori di ·musica, interessati al jazz di ricerca e alla sperimentazione, ha fattq nascere anche un piccolo "culto della personalità". Ma, volendo discernere, a mente fredda un album come Spillane (Elektra/Nonesuch), l'ultimo pubblicato da Zorn sotto proprio nome, non risulta particolarmente entusiasmante. Il brano che dà il titolo al disco è un serrato montaggio (realizzato in studio e irriproducibile• dal vivo) di spezzoni musicali, voci, effetti, dedicato a Mickey Spillane da un "compositore" che oltre a studiare musica classica è anche "venuto su a New York come un mediafreak" (come ricorda Zorn stesso sulla busta dell'album); Two-Lane Highway è un blues, debitamente "trattato", cucito addosso al bluesman Albert Collins; Forbidden Fruit è un pezzo per voce, quartetto d'archi e manipolatore di dischi. Piacevoli, ma di una piacevolezza che, malgrado le pretese, è francamente anche un po' banale, e non esente dal

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