t riconducibile ai fraintendimenti del "tradito" che alla spregiudicatezza del "traditore", e, in particolare, alla indebita confusione tra due categorie concettuali - linea politica e ideologia - che vanno invece tenute ben distinte. Un esempio di questa ambiguità è l'affermazione secondo cui sarebbe "imminentissimo" l'incontro tra scalfarismo e craxismo, affermazione oggettivamente mistificante perché al di là degli esiti politici che potrà assumere l'antagonismo tra Scalfari e Craxi, sul piano ideologico i "craxiani" sono, come categoria sociale, tra i principali referenti del progetto attorno a cui è nata e si è sviluppata "Repubblica" (le firme di Ronchey, Baget Bozzo, Colletti e altri craxiani più o meno organici sono lì a confermarlo). Questo per dire che, al di là delle oscillazioni del "tifo" per questo o quel leader, que- ' sto o quel partito o schieramento politico non vi è stato in questi anni alcun "mutamento di rotta" nell'ideologia di "Repubblica", sempre sostanzialmente coerente alle premesse "liberal" che costituiscono la sua raison d'étre nel panorarria politico-culturale ed editoriale italiano. Ci si potrebbe interrogare sui motivi che hanno determinato il trionfo, rapido e travolgente, di quella ideologia, ·ma certo non ha molto senso parlare di "scelte impreviste" e "mutamenti di rotta". L'ideologia che si è affermata in questi anni e di cui "Repubblica" è stato solo un fattore di. accelerazione e diffusione è la riproposizione - questa volta in un contesto straordinariamente favorevole - del vecchio sogno del liberalismo di fine ottocento che, richiamandosi ai valori dell'illuminismo, del laicismo, del riformismo politico e civile proponeva un progressismo o meglio un modernismo interclassista da contrapporre sia al "privilegio" e alla "reazione", sia alle spinte socialiste e rivoluzionarie. Se l'alleanza del capitalismo e del "privilegio" da un lato e la formazione dei partiti di classe dall'altro, accentuando la divaricazione di interessi tra le componenti del patto sociale proposto dal liberalismo fece fallire quel tentativo (penso per esempio al declino del partito liberale inglese), l'irresistibile "convergenza al centro" di cui "Repubblica" officia quotidianamente la celebrazione ha, ora che l'esperienza e le pote zialità del movimento operaio sembrano in gran parte consumate, notevoli chances di successo. E questa "convergenza al centrò" è stata, da sempre, la "linea politica" del giornale, una linea politica che certo si è rifatta a valori ed ha abbracciato cause che spesso hanno coinciso con quelli della sinistra, ma che aveva come presupposto esplicito la marginalizzazione di qualsiasi posizione - di destra o di sinistra - che si opponesse al patto - laico, moderno, interclassista - tra produttori. Il ruolo di "Repubblica" in questo processo (quello, per intendersi, che è stato spacciato come "fine delle ideologie" e che in realtà ha finito per legittimare, assolutizzandola, solo quella vincente) è stato rilevante. Ma il trionfo del neo-liberalismo (che include ma non si esaurisce nel neo-liberalismo) non può essere evidentemente ascritto ad un solo giornale e neppure ai media nel loro complesso, anche se è sempre più difficile tracciare il limite che separa la registrazione e la promozione di certi mutamenti ideologici. Certo è comunque che si è verificata in questi anni '80 una espansione - in parte reale, in parte frutto di puro wishful thinking - della classe media che rappr"esenta il correlativo per così dire socio-culturale indispensabile per comprendere il successo di quel "grande centro" dove sembra oggi svolgersi l'unica dialettica politica che davvero conti. Penso a fenomeni e ad episodi diversissimi tra loro sia per natura che per entità come la marcia dei quarantamila a Torino e l'annuale rito della presentazione del rapporto CENSIS e della sua filosofia, puntualmente accolta dall'oviazione acritica e quasi sacrale da parte di giornalisti, uomini politici e intellettuali di tutte le estrazioni; al referendum sulla scala mobile e alla diffusione di riviste come " Capitai", "Class", "Il Piacere" alle teorizzazioni della "società dei due terzi" e alla improvvisa "popolarità" della Borsa e degli investimenti finanziari. E ancora: i brividi di neo-patriottismo per le oscillazioni del nostro paese nella classifica delle nazioni più industrializzate (a cui è strettamente legato l'intervento nel Golfo di cui parla Manconi) o il revival, anche qui acritico e reverenziale della "cultura del capitalismo" per cui ad esempio le dichiarazioni dei dirigenti della Confindustria vengono ormai registrate dai giornali come fossero dati oggettivi, super partes, e non opinioni parziali e discutibili da confrontare con altre, diverse e magari opposte valutazioni. Per quanto eterogenei e bizzarramente accumulati, tutti questi segnali danno la misura· della vera e propria rivoluzione culturale awenuta in questi anni '80, il cui radicamento in massicci e profondi mutamenti socioeconomici sarebbe inutile oltre che sciocco disconoscere. Ma neanche si può negare, d'altro canto, che gli aspetti più spettacolari di questa dilatazione della classe meclia riguardano meno le condizioni materiali di vita che non l'immaginario, le proiezioni simboliche e il modo di atteggiarsi e di pensarsi di vasti strati sociali per i quali, verosimilmente, la sintonizzazione ideologica e culturale con la IL CONTESTO classe dirigente rimane l'unica forma possibile di autopromozione. Ecco, nell'ambito di questo dilagante snobismo di massa si inquadra il ruolo di un giornale come "Repubblica". L'intu'izione centrale dell'articolo di Manconi ("L'importanza di questi meccanismi. .. consiste nel fat- . to che - agendo su un piano non immediatamente politico - incontrano meno resistenze e difese") è contraddetta dalla esemplificazione in cui si criticano scelte e posizioni politiche più che ideologiche. In realtà l'ideologia non agisce tramite asserzioni o esplicite prese di posizione sul reale ma, come non solo il marxismo (la "falsa coscienza") ma la stessa semiologia (penso a L.J. Prieto e da noi a G. Preti o Rossi-Landi) ha sufficientemente chiarito, opera attraverso sottrazioni di informazioni e occultamenti delle sue premesse esplicite, si fa senso comune e visione del mondo tramite il ricorso a quelle "metafore assopite" (Perelman) che proprio per il loro carattere implicito, inconsapevole, familiare costituiscono formidabili strumenti di persuasione e di consenso. Gli aspetti più insidiosi di tutte le ideologie, anche delle correnti varianti deJ·pragmatismo che astutamente proclamano la fine delle ideologie, non stanno tanto in ciò che esse affermano ma nelle manipolazioni (uso il termine in senso assolutamente neutro, tecnico, senza alcuna connotazione spregiativa) che operano, negli impercettibili spostamenti linguistico-retorici che trasformano ad esempio un giudizio di valore in un giudizio di fatto. Ne consegue, che nell'ambito dei media, i luoghi in cui si manifesta - o per dir meglio - si annida l'icleologia non sono solo quelli istituzionalmente designati a veicolare la "linea politica" di un giornale o di un network (commento, articolo di fondo ecc.) ma anche e soprattutto quegli spazi "neutri" (cronaca, interviste, servizi) dove davvero le difese e le resistenze del lettore sono, più che deboli, inesistenti. Come si può qualificare, da questo punto di vista, !"'ideologia" di "Repubblica"? Credo che per dare una risposta non dico "scientifica" ma almeno seria alla domanda occorrerebbe uno studio di ampio respiro sulle strategie argomentative e sul referente socio-culturale (il "target") del giornale. Personalmente, e per così dire "a occhio", ho l'impressione che, così come sul piano politico "Repubblica" ha concorso alla svalorizzazione di tutto ciò che a destra o a sinistra fosse estraneo o ostile a quel "grande centro" di cui parlavo all'inizio, sul piano ideologico abbia enfatizzato, valorizzato, fornito strumenti di coesione e di identità culturale a quella "classe media allargata" al di fuori 25
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