Linea d'ombra - anno VI - n. 30 - settembre 1988

IL CONTESTO allievi valutati come peggiori furono esattamente quelli a cui erano state attribuite le minori chances di partenza. Anche in questo caso gli insegnanti si erano basati sul primo risultato e non sull'ultimo, non avevano cercato di vedere il non prevedibile. Tra le pagine più penetranti del romanzo quelle in cui ia fantasia inquieta del direttore rivela un microcosmo scolastico popolato di aèiulti che invecchiano con i loro fantasmi di morte potenziati dal contatto quotidiano con l'eterna fanciullezza rosea e imberbe, "onde che si susseguono sempre uguali", la prima classe e l'ottava classe sempre al loro posto. La deformazione grottesca coglie in squarci impietosi le meschine tecniche di sopravvivenza quotidiana di una varia tipologia di insegnanti "strana razza di guitti da teatrino popolare, saltimbanchi da varietà" che "in aggiunta a questa vocazione per l'istrionismo, coltivavano un'inclinazione alla tirannia e al predominio", a loro volta pressati da madri onnipresenti e iperprotettive, sprizzanti "maternità rossa di zanne e di artigli... come aironi strepitanti in difesa del proprio nido". Chiunque di noi svolga almeno uno di questi due ruoli educativi dovrebbe vedersi almeno ogni tanto così, per non diventarlo del tutto. Grandi assenti i bambini veri, ridotti a scolari. Paradosso della pedagogia normale in tempi normali: imprigionare ciò che non le è consono, che tuttavia riesce talora a riemergere, a non farsi divorare del tutto, come nella misteriosa vita siderale che Joseph Brill ha smesso di scrutare in gioventù legalassie più piccole continuano a roteare "come un Giona derviscio" nel ventre della "galassia cannibale" che dà il titolo al romanzo. Ma l'interesse maggiore del romanzo è al di là di questa riflessione immediata, e di per sé già abbastanza nota e ovvia, sull'educazione fagocitante: risiede piuttosto, oltre che nella graffiante veridicità del quadro di un ambiente intellettuale e scolastico come tanti, nella sotterranea immagine della pedagogia come metafora più ampia dei rapporti fra le generazioni, fra il reale e il possibile, fra il Creato e l'Ancora-da-Crearsi, secondo il linguaggio religioso-naturalistico della Ozick, che trova una chiave per illuminare l'aspetto distruttivo della normalità e la sensatezza dell'utopia. Come Chaim Potock, al quale la legano gli ambienti ebraici vissuti e descritti e il tema degli esiti imprevisti dell'educazione (esemplare nelle vocazioni opposte e incrociate di Danny e di Reuwen che smentiscono i progetti dei padri), anche la Ozick ci propone un moderno romanzo di formazione centrato, nella nostra epoca della giovanilità protratta fino alla tarda età, sulla crisi di passaggio dalla maturità alla vecchiaia. 20 VIAGGI GIDE IN AFRICA Andrea Berrini Leggo il diario di un viaggio in Africa del 1925.'Chi lo scrive è inviato ufficiale dal ministero delle colonie francesi nella allora Africa Equatoriale, gli è stato chiesto di stendere una relazione dettagliata su quelle regioni. Ed è con occhio squisitamente coloniale che si avvicina a questa parte del mondo: non sembra mai dubitare sulla giustezza della.missione civilizzatrice della potenza europea nel continente nero. Viaggia accompagnato da carovane. di portatori, reclutati di forza dalle autorità, molti dei quali non sopporteranno le fatiche del viaggio e ci lasceranno la pelle prima della fine. Questi negri - così li chiama - portano sulle spalle viveri e bauli contenenti il bagaglio persçmale del viaggiatore francese, e per lunghi tratti il viaggiatore stesso, issato su una rudimentale portantina. Il viaggiatòre è André Gide; il suo Viaggio in Congo è riproposto ora da Einaudi. Parlandone, non si può dunque prescindere da una critica feroce della mentalità coloniale. Eppure la considerazione che mi sembra più importante è un'altra: ed è sorprendentemente positiva. Perché quello che più colpisce, di questo diario, è che quest'uomo viaggia bene: viaggia come io penso che si debba viaggiare in Africa oggi, a sessant'anni di distanza .. Gide parte con dei pregiudizi, come tutti quelli che vanno in un posto che non conoscono: l'Africa, terra di natura incontaminata e di mistero. Gide cerca il paesaggio naturale. L'inizio del suo viaggio è segnato da queste aspettative, che lo portano più volte a caccia di farfalle con una retina da entomologo: ce le descrive, le farfalle e gli insetti e le varietà botaniche, con una sorta di compunzione, come se fosse quello l'oggetto principale della relazione che dovrà stendere. È professionale e oggettivo, nel farlo. Ed è soprattutto noioso, in questa prima parte del suo diario: o forse è semplicemente annoiato, mentre scrive e mentre viaggia. Come osserva V. Magrelli nella postfazione al volume, paradossalmente Gide non troverà mai ciò che aveva voluto cercare più di ogni altra cosa: la foresta tropicale. La prima parte del viaggio è una sequenza di delusioni e occasioni perdute: e allora torna ai suoi insetti, alle sue farfalle. Ma Gide sa capire come la rappresentazione immaginaria che si era fatto del suo viaggio in Africa finisca con lo scontrarsi con il mondo che appare di fronte ai suoi occhi: perché Gide sa

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