DISCUSSIONENELOffl Non c'è convegno o simposio di critica letteraria o di filosofia in cui non spunti fuori la misteriosa parola "decostruzione". Le vie della decostruzione sono infinite. natario, cioè di un proposito, non diremo di modificare senz'altro l'identità del destinatario, ma di condizionare e di orientare il processo di immedesimazione e di liberazione emotiva che la funzione estetica sollecita. Certo è che l'indagine storica abbozzata per ciascuno dei tre aspetti dell'esperienza estetica offre una serie di considerazioni e di esempi quanto mai ricca e suggestiva, dall'antichità classica al medioevo cristiano e cortese, da Petrarca a Rousseau, da Proust a Valéry a Beckett: a testimonianza non solo di un'invidiabile padronanza della letteratura occidentale, ma anche di una precisa volontà di rifuggire dagli schematismi astratti e dalle codificazioni aprioristiche cui a volte indulgono i teorici della letteratura. Nei capitoli successivi Jauss approfondisce alcuni temi implicati dal suo disegno generale; particolarmente significativa, a corollario del capitolo sulla katharsis, la parte dedicata all'identificazione con l'eroe letterario (un problema tanto importante quanto di solito trascurato). . In attesa della pubblicazione della seconda parte del libro di Jauss, dedicato all'ermeneutica, conviene ricordare che il Mulino ha di recente proposto un'altra fondamentale opera sui problemi della ricezione: il saggio di Wolfgang Iser L'atto della lettura. Una teoria della risposta estetica (trad. di Rodolfo Granofei, revis. di Chiara Dini, prefaz. di Cesare Segre, pp. 330, L. 34.000). Si tratta di un'acuta e accurata analisi della fenomenologia della lettura individuale, che illustra la complessità e la ricchezza di articolazioni del comportamento del lettore letterario. Molte sono le acquisizioni da ritenersi definitive in merito alle operazioni percettive e interpretative della lettura: la dialettica di protensione e ritenzione, il lavoro della costruzione di coerenza, la funzionalità dei punti di indeterminazione del testo, l'idea fondamentale di lettura come esperienza. Una certa reticenza si nota invece a proposito dell'antefatto della lettura, cioè dei motivi che inducono un individuo a leggere. Ma sul terreno dell'estetica della ricezione e della pragmatica letteraria non mancano, nell'area della scuola di Costanza e altrove, testi meritevoli di essere divulgati e tradotti. L'importante è che la "ricezione" di questi contributi vada nel senso giusto, ossia nella direzione non solo di un ampliamento e di un perfezionamento delle prospettive e dei metodi di ricerca, ma anche di un'effettiva valorizzazione dell'esperienza estetica come esplicazione positiva di risorse morali e intellettuali, a beneficio (non solo estetico) dei singoli e della collettività; bref, nel senso di quella che Spinazzola ha definito la "democrazia letteraria". Ma su questo è prudente non azzardare previsioni. LEVIEDELLADECOSTRUZIONE Stefano Ve/atti Per uno di quei curiosi fenomeni "di ritorno", che caratterizzano spesso e a diversi livelli i rapporti tra il Vecchio e il Nuovo Continente, ci giunge dagli Stati Uniti un libro dedicato alla decostruzione, che ha il pregio di essere piuttosto chiaro, informato, e ben curato (Jonathan Culler, Sulla decostruzione, a cura di S. Cavicchioli, Bompiani, pp. 303, L. 30.000). Dall'Europa, il termine "decostruzione" è partito sul finire degli anni Sessanta; approdato in America negli stessi anni, è stato subito accolto favorevolmente da alcuni, e nell'arco di vent'anni è entrato in tutti i dipartimenti di humanities, provocando entusiastiche conversioni e violente reazioni di rigetto. Da noi la penetrazione è più contenuta, ma non c'è convegno o simposio di critica letteraria o di filosofia in cui non spunti fuori quella parola, per i più misteriosa. "Quando ho scelto quella parola" - scrive Derrida nella "lettera a un amico giapponese" impegnato a tradurre l'ardua scri.ttura del filosofo francese - "mi pare fosse in De la grammatologie, non pensavo che avrebbe assunto un ruolo tanto centrale nel discorso che allora mi interessava. Cercavo, tra l'altro, di tradurre e adattare ai miei scopi il termine heideggeriano Destruktion o Abbau. In quel contesto, significavano entrambi una operazione vertente sulla struttura o sulla architettura tradizionale dei concetti istitutori della ontologia, o della metafisica occidentale". Nel contesto in cui il termine apparve nell'opera di Derrida, lo strutturalismo era dominante: " 'Decostruzione' sembrava andare in quel senso perché indicava una certa attenzione alle strutture[ ... ]. Decostruire era anche un atteggiamento strutturalista o comunque un atteggiamento che faceva propria una certa necessità della problematica strutturalista. Ma era anche un atteggiamento antistrutturalista. [... ] Bisognava disfare, scomporre, desedimentare delle strutture (di ogni tipo: linguistiche, 'logocentriche', 'fonocentriche' - dato che lo strutturalismo era dominato soprattutto da modelli linguistici, quelli della cosiddetta linguistica strutturale che veniva anche chiamata saussuriana - socioistituzionali, politiche, culturali, anche e anzitutto filosofiche)". Ma non bisogna pensare che la pratica decostruzionista sia un'analisi ("perché lo smontaggio di una struttura non è una regressione verso l'elemento semplice, verso una origine non scomponibile"), o una critica (perché la critica implica una presa di distanza, ma "l'istanza del krinein o della krisis - decisione, scelta, giudizio, discernimento - è anch'essa, come del resto tutto l'apparato della critica trascendentale, uno dei 'temi' o degli 'oggetti' essenziali della decostruzione"). E infine non è neppure un metodo, anzitutto perché non è una "via" da seguire, ma un evento "che non aspetta la deliberazione, la coscienza o l'organizzazione del soggetto, né della modernità. Si decostruisce. Qui il Si non è una cosa impersonale che si opponga a una qualche soggettività egologica. È in decostruzione" (J. Derrida, Pacific Deconstruction, 2. Lettera a un amico giapponese, in "Rivista di Estetica" 17, 1984, anno XXV). La prima domanda che viene in mente, è come mai una parola così carica di presupposizioni "forti" e fortemente legate alla tradizione filosofica europea abbia potuto conquistare tanti dipartimenti di studi letterari negli Stati Uniti. Culler nota giustamente che l'assimilazione accademico-letteraria della decostruzione è simile a quella che si è verificata con la psi97
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